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Leo Longanesi - Aforisticamente

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Con questo nuovo articolo do seguito all’iniziativa, che ho inaugurato con una lista di libri di scrittori di aforismi da ristampare. Il secondo libro di cui vorrei occuparmi è La sua Signora, taccuino di Leo Longanesi, pubblicato postumo dalla Rizzoli nel 1957, con affettuosa prefazione di Indro Montanelli, e attualmente fuori catalogo.

Leo Longanesi, nato nel 1905 a Bagnocavallo da una famiglia di agiati proprietari terrieri e morto nel 1957, è stata una delle figure più importanti e controverse del panorama giornalistico e culturale dell’Italia del novecento. Come scrive Andrea Ungari in uno dei pochi libri su questa figura geniale e poliedrica, “Un conservatore scomodo”, Leo Longanesi è stato “il maestro dei più importanti giornalisti italiani del dopoguerra, ideatore di slogan e di pubblicità di successo, editore, talent scout e scrittore di razza. Egli ha impresso di sé almeno due generazioni di italiani, quelli che crebbero all’ombra di Mussolini e del Re soldato e quelli che si confrontarono con il regime democristiano e la repubblica”.

Andrea Ungari, che cerca di ricostruire il percorso individuale di Longanesi nel suo passaggio dal fascismo al postfascismo, ci fornisce forse una chiave interpretativa per capire l’oblio di questo figura geniale. Fascista critico durante il ventennio (“era una critica che muoveva dal di dentro del regime” scrive Montanelli), in fuga dal fascismo dopo l’8 settembre del 43 (la sua fuga verso Napoli è illustrata nel diario Parliamo dell’elefante), durante la Repubblica Leo Longanesi diventa un “anti antifascista” esprimendo una sfiducia nei confronti del nuovo regime democristiano. Forse questo suo essere un anarchico di destra, insofferente per la burocrazia del pensiero e per il conformismo delle idee, un moralista conservatore che descrive la galleria degli errori (e degli orrori) degli italiani moderni spiega – anche se solo parzialmente – il motivo per cui è stato messo in disparte dalla nostra cultura. Come scrive Montanelli, alla sua morte erano presenti una decina di persone, non di più: “Al cimitero ci si ritrovò in una decina di persone, non di più. Non ci furono cerimonie né discorsi. Solo la piccola Virginia, che avrà avuto quattordici anni, mentre la bara di suo padre calava nella tomba, mormorò: «E dire che gli orfani mi sono sempre stati così antipatici…» Una frase che sarebbe piaciuta moltissimo a Leo”.

Praticamente introvabili i suoi scritti giornalistici apparsi sulle riviste L’italiano, Omnibus e Il Borghese, fuori catalogo la sua opera più importante La sua signora, inesistente una edizione filologica del suo epistolario, gli unici libri di Leo Longanesi disponibili in libreria sono Una vita, Ci salveranno le vecchie zie, Parliamo dell’elefante e Il generale Stivalone. Troppo poco per una figura della sua importanza. Troppo poco in un paese in cui si stampano 60.000 nuovi libri all’anno.

Da sempre Leo Longanesi ha dedicato attenzione alla scrittura aforistica a partire dai suoi aforismi apparsi sulla rivista L’italiano (suo è il più celebre degli apoftemmi pubblicati nel 1926, “Mussolini ha sempre ragione” che divenne parola d’ordine di un intero ventennio di storia nazionale, trascritto persino su innumerevoli muri) e sulla rivista Il Borghese. Ma l’attenzione per l’aforisma si ritrova anche nei suoi libri, in particolare in Parliamo dell’elefante (1947) in cui Leo Longanesi rievoca la sua fuga verso Napoli dopo l’armistizio dell’8 settembre e nel taccuino-diario La sua signora che riprende molti dei suoi editoriali comparsi sul Borghese. Come ha scritto Gino Ruozzi (che nell’antologia Scrittori italiani di aforismi dedica ampio spazio alla scrittura aforistica di Leo Longanesi), i due libri di Longanesi sono “volumi aforistici più che volumi di aforismi. Comprendono infatti i modelli classici dell’aforisma (affermazioni, definizioni, precetti, riflessioni) accanto a note di diario, dialoghi, aneddoti, ricordi e altre forme brevi e discontinue. Libri frammentari in cui temi e generi si mescolano”.

Mentre in Parliamo dell’elefante questa contaminazione è più evidente (si passa da brani di una riga a brani di parecchie pagine che contengono ricordi e divagazioni di varia natura che poco hanno a che fare con l’aforisma), nel taccuino La sua signora la lunghezza del frammento è più omogenea (quasi mai oltre la mezza paginetta) e la presenza di aforismi è distribuita lungo tutto il libro.

Su internet ci sono molti aforismi tratti da La sua signora e Parliamo dell’elefante. Ero piuttosto indeciso se aggiungere all’ennesimo elenco di aforismi di Leo Longanesi, il mio elenco. Poi mi sono accorto che gli aforismi su internet sono sempre gli stessi, copiati e ricopiati da un sito all’altro, come se nessuno avesse mai letto il libro originale. E allora ho deciso di rendere un mio piccolo omaggio a questa grande figura, con una selezione personale di aforismi tratti dalla sua opera più importante, La sua signora, Taccuino, 1957.

Come scrive Indro Montanelli nelle prefazione a La sua signora: “Non lasciatevi ingannare dallo sfolgorio delle sue stelle filanti. Leo Longanesi era un uomo triste, che sghignazzava per non singhiozzare, e aveva chiara la coscienza del fallimento di tutti i valori che difendeva. Perchè si ostinasse a farlo, è difficile dire. Un po’ perchè ci credeva. Un po’ perché, guidato come era più dal gusto che dalla logica, non amava che le battaglie perdute. Nel suo memorialismo, diranno i critici, c’è del Renard. Certamente c’è del Renard, più Marziale, più Don Chisciotte. Ognuno ha i suoi parenti. E Longanesi, di proposito, si è scelto i più disgraziati, preferendoli ai più fortunati. Un impegno di straordinaria eleganza morale ha impedito a quest’uomo, che ha fatto il successo di tanta gente, di cercarlo per sè. Il suo “Taccuino” era relegato nelle pagine di fondo del Borghese, di cui era direttore e proprietario. E, quando c’era abbondanza di materiale, era quello che saltava”.

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 La sua signora, Taccuino, 1957

Esistono tipi che assumono una personalità soltanto al telefono. (Milano 10 marzo 1947)

Il contrario di quello che penso mi seduce come un mondo favoloso. (Milano 12 maggio 1948)

La mia fantasia si è inceppata: ho bisogno di un piccolo dispiacere. (Milano 14 dicembre 1948)

I deputati della maggioranza democristiana pensano in gruppo; procedono tenendosi per mano come i cordoni della forza pubblica. (Milano 16 ottobre 1949)

C’è una sola grande moda: la giovinezza. (Milano 24 novembre 1949)

“Torni, torni da noi, si faccia rivedere. Ridiamo tanto con lei” mi dice la padrona di casa. “No, non ritornerò più. Non è necessario che io ritorni: il cretino che vi ha sempre divertito ve lo lascio qui, per sempre.” (Milano 26 novembre 1949)

Dice M: “la libertà di stampa è necessaria soltanto ai giornalisti che non sanno scrivere.” (Milano 26 novembre 1949)

Cercava la rivoluzione e trovò l’agiatezza. (Milano 1 gennaio, 1950)

Sul Giornale di Trieste, un Tale scrive cose senza senso a proposito del mio libro. Ma, a un tratto, gli sfugge questa battuta: “L. dice sempre il vero, mai la verità”. Non è male. (Milano 11 ottobre 1950)

Ci stivamamo tantissimo e ci annoiavamo tantissimo (Milano 11 ottobre 1950)

Leggo il secondo volume delle Memorie di Churchill. Quell‘io che salta fuori a ogni riga, quell’io scritto a lettere minuscole ma pensato in grande, quell’io con il sigaro in bocca, alla fine spinge a sperare in una vittoria di Hitler. Non per nulla: per dare una lezione di modestia a Churchill. (Milano 13 ottobre 1950)

I suoi elogi mi restarono sulla giacca come macchie di unto. (Milano,18 novembre 1950)

N.: alla sua penna sono appesi una moglie, diversi figli, una madre e una serva. Bisogna tenerne conto, quando si giudica la sua prosa. (Milano, 27 novembre 1950)

Quando suona il campanello della loro coscienza, fingono di non essere in casa. (Milano 20 gennaio, 1951)

Guardava la sua proprietà terriera con l’occhio di chi l’ha rubata di fresco. (Imola, 19 agosto, 1951)

Per contribuire alla mia immortalità, la signora, mi consigliò di togliere una virgola al mio libro. Era la sola cosa che sarebbe passata ai posteri. (Milano, 1 marzo, 1952)

L’italiano non lavora, fatica. (Roma 1 luglio 1953)

Il piacere di dispiacere a chi si vuol far piacere (Milano 5 agosto 1953)

“Un lieve prurito all’anima, come se la sfiorassero le ciglia di un angelo” dice monsignore a donna G. (Milano 6 agosto, 1953)

Non pagare i debiti, ma versare grosse lacrime di acconto ai creditori. (Milano, 13 febbraio, 1954)

Incontro Moravia con la moglie al Salvini. Lui: “Io sono un uomo infelice”. Lei: “Tu infelice? Sei felicissimo. L’infelice sono io!” Felici tutti e due di essere infelicissimi. (Milano 10 novembre 1954)

“Le belle lettere d’amore si scrivono a chi non si ama” dice A. “Io stesso, che ne ho scritte tante, quando sono davvero innamorato, ricopio quelle vecchie, scritte a donne di cui non mi importava un granchè. “(Milano 13 novembre, 1954)

“Senta: le sue idee sono troppo chiare e precise. Ritorni un altro giorno, con più confusione in testa, con più estro. “(Milano 13 novembre, 1954)

Siamo uniti da una reciproca antipatia che non riusciamo a sfogare. (Milano, 22 novembre, 1954)

I generali non sanno che le battaglia le vincono gli storici. (Milano, 22 novembre, 1954)

Dice C. “Non è che io l’ami. E’ che non riesco a guarire dall’abitudine di amarla.” (Milano, 16 dicembre, 1954)

Il conte L. dice: “Questa casa è troppo graziosa”. Felice del suo avverbio, mi guarda a lungo in attesa di un mio cenno di approvazione. “Neanche se viene giù il diavolo ti sorrido” penso. Anzi digrigno i denti come chi senta un acuto dolore. Smarrito, il conte guarda altrove. (Milano 15 marzo, 1955)

Ieri sera, in casa R. : scambio di idee prese a prestito tra gente che presta i quattrini al venti per cento. (Milano 15 marzo, 1955)

Posò il suo vecchio uovo di capitalista in un nido d’infanzia operaia, e ne venne fuori un finanziamento governativo (Milano 15 marzo, 1955)

La sua ombra, signora, non porta le mutande. (Milano 21 marzo, 1955)

Oh, poter credere nella giustizia divina per direttissima. (Milano 24 marzo, 1955)

Un matrimonio d’amore: amano tutti e due i cani barboni. (Milano 24 marzo, 1955)

Montanelli: un misantropo che cerca compagnia per sentirsi ancora più solo. (Milano 27 marzo, 1955)

La virtù affascina, ma c’è sempre in noi la speranza di corromperla. (Milano 1 aprile, 1955)

Chiamo al telefono D. dopo molti sforzi per non farlo. Odo la sua voce bassa, cupa. Stacco il ricevitore. E’ come se avessi preso un fernet. L’antipatia che ho per lui mi rinfranca. (Milano 16 aprile, 1955)

Le labbra della vecchia signora C. sembrano un pezzetto di manzo crudo gettato sul marmo di una vecchia tomba. (Milano, 17 aprile, 1955)

“Si è tristi anche perchè la tristezza ci lascia” dice M. (Milano 12 maggio, 1955)

Italia 1955: avvolta in una pelliccia di benessere, ma con i piedi scalzi (Milano 21 agosto, 1955)

In trattoria. L’avvocato O. finge di non vedermi, ma le sue orecchie mi fissano. (Roma 1 settembre 1955)

Dice la contessa P.B.: “L’intelligenza, lei lo sa, ama gli inviti a pranzo” (Roma 22 settembre 1955)

Mi mostra i suoi figli, e li illustra con aggettivi tanto dolciastri che non posso fare a meno di chiedergli: “Posso assaggiarne uno?” (Milano 7 ottobre, 1955)

Non abbiamo più nulla di nuovo da dire: il nuovo è già tutto prenotato dai vecchi che vogliono ringiovanire. (Milano 12 ottobre, 1955)

Mentivo, ma il personaggio che rappresentavo era sincero. (Milano 17 ottobre 1955)

“Soltanto le donne stupide ispirano; perché ci irritano” dice A. (Milano 27 ottobre 1955)

Libertà di opinioni in un paese senza opinioni. (Milano 23 novembre 1955)

Carrà: quanta pittura ha scritto, e quanta poca ne ha dipinta. (Milano 3 gennaio 1956)

Per indisposizione del dittatore la democrazia si replica. (Milano 13 aprile 1956)

Incontrato ieri sera il solito cronista mondano povero, con le scarpe risuolate, che segnava sul notes i cognomi dei notabili con l’aria di chi stende un elenco di pignoramento. (Milano 22 aprile 1956)

Al cocktail dell’albergo Continentale. Le signore sorridevano, mostrando i fili di prosciutto rimasti impigliati tra i denti. (Milano, 5 maggio, 1956)

P. inveiva contro gli ebrei, senza accorgersi che lo vedevamo di profilo. (Milano, 7 maggio, 1956)

“Vorrei qualcosa di diverso, ma che non fosse troppo diverso da quello che credo possa essere diverso” dice la contessa D. (Milano, 17 maggio, 1956)

Abuso di potere, mitigato dal consenso popolare: ecco l’ideale della nostra democrazia. (Milano, 28 maggio, 1956)

L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere chiamati. (Milano, 3 giugno 1956)

Non credeva in Dio, credeva nella comodità di credere in Dio. (Milano, 6 giugno 1956)

L’italiano: totalitario in cucina, democratico in parlamento, cattolico a letto, comunista in fabbrica. (Milano, 11 agosto, 1956)

Un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare la rivoluzione. (Imola, 13 agosto 1956)

A uno scultore: “Le sue statue sono parlanti, ma non sanno cosa dire.” (Milano 3 ottobre 1956)

Non è la libertà che manca; mancano gli uomini liberi. (Milano, 8 gennaio, 1957)

“Quando penso a lei, sento l’odore della pipa di suo marito”, dice L. (Milano 13 gennaio, 1957)

Una società fondata sul lavoro non sogna che il riposo. (Milano, 18 febbraio, 1957)

Un vero giornalista: spiega benissimo quello che non sa (Milano, 22 marzo, 1957)

La nuova donna di servizio ha capito al volo che non abbiamo il piglio e il decoro dei veri padroni: ci aiuta, non ci serve. (Milano, 15 aprile, 1956)

I figli che studiano a voce alta nell’altra stanza, dicono un rosario alla mio giovinezza. (Milano, 30 giugno 1957)

Quando potremo dire tutta la verità non la ricorderemo più. (Milano, 6 agosto, 1957)

5 Comments

  • Marshall ha detto:

    Grazie alla citazione ieri sera di Sgarbi, e grazie alla lettura di questi aforismi, ho “scoperto” questo “autore” di cui avevo una vaga conoscenza. Mi piace e ho pubblicato la citazione di Sgarbi sul mio blog.

  • Grazie a lei. Davvero un peccato che questo autore sia fuori catalogo per logiche editoriali che mi sfuggono.

  • fausta alberti ha detto:

    anch’io ho scoperto questo autore grazie a Sgarbi ieri sera: Mi colpito la sua verità sull’importanza della povertà. Peccato che il libro La sua signora sia fuori catalogo lo leggerei con curiosità

  • carlo ha detto:

    Ne ho ancora una copia che leggo e rileggo

  • fabriziocaramagna ha detto:

    E’ davvero un libro fantastico, che si fa proprio leggere e rileggere. E ogni volta si trova una verità, un senso critico, un’ironia che pochi libri contemporanei hanno.