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Frasi BelleL'aforisma in Italia

La scrittura aforistica di Manlio Sgalambro

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In una intervista a Il Corriere della sera, così Manlio Sgalambro racconta la sua folgorazione all’età di vent’anni per la filosofia e in particolare per Arthur Schopenhauer: “Era il 1943. Gli alleati avevano appena liberato la Sicilia e in qualche modo si ripristinavano le vie di comunicazione con il resto dell’Italia meridionale. In punti insoliti della costa arrivavano barche cariche di tutto: pasta, salumi, stoffe, a volte persino libri. Ero presente a uno di questi sbarchi, e ricordo il passar di mano di due volumi di Schopenhauer, editi da Laterza: Il mondo come volontà e rappresentazione. Li comprai, e fu un incontro decisivo. La gioia che mi prese, nelle settimane che seguirono, fu ineffabile. Leggevo, smozzicavo, cercavo di capire. Fu una vera vacanza dello spirito, anche se il mio non era adeguatamente esercitato, allora“.

Manlio Sgalambro, nato a Lentini nel 1924, (“Lentini, un centro che oggi è soltanto uno snodo ferroviario per Siracusa”), è considerato uno dei più importanti filosofi italiani. Sgalambro, preferisce chiamare Teologia la sua Filosofia, perché Dio ne è l’oggetto fondante, ente infimo che avversa l’uomo e lo uccide. “Dopo Schopenauer teologia ormai significa rendere conto dell’ottusa esistenza dell’universo” afferma Sgalambro, che scrive anche che la morte è il delitto di Dio (“tutti moriamo assassinati”).

Quella di Sgalambro è una Teologia non religiosa, oggi possibile “come ieri le geometrie euclidee”. Secondo Sgalambro Dio è il mondo nella sua profonda estraneità, nella sua avversione al soggetto che attacca fino a ucciderlo, nella sua controfinalità. Il filosofo non può che essere “un teologo spregiatore di Dio”, (Teologo è colui nel quale si compiono distacco e allontanamento da Dio come origine e pensiero ‘positivo’ del mondo. Colui che con un unico atto della mente, lo intende e se ne separa. Con disgusto”), un inquisitore della verità (“Tutti dovremmo essere inquisitori. La conoscenza non sommuove nulla, gli inquisitori torturavano la realtà per arrivare alla verità. Oggi non si usa più torturare la natura. Io non ho avuto dubbi perché mi sono sentito in qualche modo un torturatore della realtà”), un profeta della catastrofe e un funebre praticante dell’arte di “pensare contro se stessi”. “L’idea eterna dell’uomo è il suo stesso cadavere”, “Il mondo è esattamente ciò che appare: in sé è ancora peggio”, “Chi ne vuole sapere di più su Dio sappia che non è diverso dal mondo”, “Sogno una terra spoglia, senza animali, senza tracce di vita”, “L’avversione sistematica del mondo verso di noi culmina nella morte”. Secondo Sgalambro l’unica consolazione in questa universale disperazione è il piacere di pensare “Vera vita è quella della mente”, “L’estrema rinuncia è per me la rinuncia alle gioie del pensiero, alle Idee, alle verità seducenti e pericolose. Nulla mi importa delle gioie della vita, belle donne e ricchezza non mi dicono nulla, ma un bel pensiero, sinuoso come un serpente, una verità, la penetrazione di un difficile testo, la vittoria del mio pensiero su un altro, strapparmi tutto questo è strapparmi la carne e le viscere. Qui è vera rinuncia”.

Sgalambro ama definirsi dogmatico, il suo è un pensiero forte contrapposto alla filosofia della consolazione e alla filosofia del disincanto. La verità è evidente, si tratta di accettarla nella sua natura unica, feroce che ci accompagna fin dalla nascita, l’evento funesto che diede luogo alla vita stessa. Sgalambro esprime l’orgoglio e la rabbia di conoscere la verità delle cose, di possederle nell’idea, siano come siano (“Il perfetto disegno di un carcinoma visto in una lastra mi rallegra”). Le risposte di Sgalambro sono ultime e uniche, definitive e insuperabili. I libri di Sgalambro “sono un sistema il quale non ne tollera altri. La verità è quella che è: ha un senso e uno solo… la verità non ha bisogno né dell’autore né del lettore”.

Come altri due illustri siciliani (Gesualdo Bufalino e Tomasi di Lampedusa) Sgalambro scrive molto tardi (“Il mio primo testo di filosofia l’ho scritto a 58 anni. Quando non ho avuto più dubbi”). Molti dei testi Sgalambro (tra i maggiori cito La morte del sole 1982, Trattato dell’empietà 1987 e Del pensare breve 1991, tutti pubblicati dalla casa editrice Adelphi) sono caratterizzati dall’esposizione per aforismi, forme brevi che mandano in pezzi l’ethos oratorio: “Le due cose più rapide, l’intuizione e l’aforisma, soprendono la volontà e si sottraggono a essa. Per un soffio l’hanno elusa e trionfano per quanto loro è concesso” scrive in Del pensare breve. E anche “Il pensiero breve non ha corta memoria. Chi pensa non dimentica il torto subito – il fatto che nacque – e lo ritorce contro l’espressione. L’aforisma è l’uso pessimistico della scrittura. Il pensiero breve manda in pezzi l’ethos oratorio quale forma legata all’insegnamento supponente e trasmigrato poi nell’opus. Tutto quanto si può dire si può dire invece in un aforisma, l’anima del quale è la scansione che segna il tedio del pensare ma anche la sua eroica sosta per raccogliere, volta per volta, il pensato (…) L’aforisma è un cenno su cui ci si intende solo tra coloro sui quali il torto subìto lasciò impresso un segno”.

Negli ultimi vent’anni Manlio Sgalambro inizia la collaborazione con il cantante Franco Battiato per cui scrive testi di canzoni, libretti teatrali e sceneggiature di film. Dal 1998 scrive testi di canzoni per Patty Pravo “Emma”, Fiorella Mannoia “Il movimento del dare”, Carmen Consoli “Maria ti amiamo” e Milva “Non conosco nessun Patrizio”. Sgalambro pubblica anche diversi singoli discografici e si esibisce in concerti (“Una delle più grandi soddisfazioni della mia vita è stata cantare in concerto con i Manu Chao e chiudere gridando: Abajo todos!”). Il filosofo siciliano si dichiara convinto della “cantabilità del pensiero” e così spiega in una intervista a La Repubblica la bislacca promiscuità di generi: “Il filosofare, oggi, ha perso il suo luogo. Si pretenderebbe che gli siano rimaste le aule universitarie, dalle quali pero’ risuona soltanto uno squittio di topi. E così siamo stati tutti defraudati del potere di interrogare e rispondere, a vantaggio dei cosiddetti professori, che dovrebbero pensare per noi: esserini modesti, che hanno fisionomia da bancari e cercano di far garantire dall’istituzione università la verosimiglianza dei loro ragionamenti. Questo è il quadro. Che mi fa dire che uno si porta il filosofare con sé . E se è sul palcoscenico o davanti a una determinata platea, allora il filosofare è lì . Non è la cattedra a garantir serietà . Infatti, in una piazza hai a che fare con passioni, emozioni, ragionari che ti investono in prima persona. Dovremmo preferire la gelida e insignificante sala di un convegno, dove si svolgono interventi prestabiliti e monatologici dei professori?”

Presento qui di seguito una selezione tratta da La morte del sole, Trattato dell’empietà e Del Pensare breve. La scrittura filosofica di Sgalambro (come in Schophenauer e Nietzsche) alterna il frammento lungo (di una pagina e anche più) con il frammento breve di poche righe. Questo è evidente soprattutto nel Trattato dell’empietà e in Del Pensare breve. In La morte del sole, il primo libro di Sgalambro, c’è invece una assoluta predominanza di frammenti lunghi qua a là intervallati da pochi frammenti brevi. In aderenza alla filosofia del blog riporto dalle tre opere quei frammenti aventi maggiore carattere aforistico.

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Del pensare breve, Adelphi, 1991

Vie. Ci si trascina di notte per le vie e si parla tra sé. Il dialogo alligna di giorno e risuona dei suoi traffici ignobili. Di notte si monologa. Come dei re.

Ospedale di notte. Negli ultimi momenti della vita qualcosa allontana per sempre dai teoremi solenni, dal finalino sublime. Gli occhi cadono invece sulle cose più fruste e si assiste alla propria fine in un rozzo ospedale contemplando ammaliati dei luridi calzini.

Confessione. Il delitto mi appassiona. Ma in un altro senso e modo di come appassiona i miei contemporanei. Essi vi vedono la completa laicità. Io vi vedo il Metafisico che incombe. Ciò che ci trascende. Insomma, il Delitto. Mi pare che esso sia l’atto originario. Ho tante volte riflettuto sulle conclusioni che ne ho tratto: tutti moriamo assassinati. Miseri e illusi vediamo una morte naturale e la distinguiamo con cura dalla violenta, dando retta a giudici e avvocati. Ma qualcuno ci uccide.

Filosofie minori. Ogni filosofia minore è un sorta di filosofia du mal. Minore essa lo è non davanti ad altre che sarebbero grandi, ma davanti al fatto che queste sostengono il mondo mentre quella lo manda al diavolo.

Silete Theologi! Se rubi ti arrestano; se affermi che esiste Dio è solo un’opinione. Ciò mi ha sempre meravigliato.

Frode. Come sopportiamo ancora di chiamarci viventi – noi morenti!

La belle dame sans merci. La donna fatale (o ciò che resta di quella che si chiamò così nel bel secolo) compete col filosofo dei costumi a cui la comprensione dell’individualismo sfugge sempre per un soffio. Mentre quella ha capito tutto alla prima occhiata.

Fabian. Storia di un moralista. Questo romanzo di Erich Kastner finisce così. Un ragazzino, camminando per gioco, sul parapetto di un ponte, cade in acqua. Fabian, che si trova a passare, si butta per salvarlo. Il piccolo raggiunge la riva per proprio conto. Fabian muore annegato. S’era scordato che non sapeva nuotare. Parecchie linee si dipartono da questa conclusione. Una fra tutte ci convince di più. Moriamo perché ci siamo scordati di qualcosa.

Scissione della mente. Per quanto mi riguarda non crederò mai che la scissione dell’atomo possa produrre altrettante distruzioni di quante ne produce la scissione della mente.

Nell’età dell’aforisma. Se Karl Kraus avesse scritto Il capitale lo avrebbe fatto in tre righe.

Habermas. O dell’infelicità di non poter essere un discepolo e di non potere divenire un maestro.

Filosofi pessimisti. Essi vogliono la realtà cattiva ma la teoria buona (cosa che già meravigliò il vecchio Davide Federico Strauss).

Svogliatezza. Con essa si presenta la negazione nella sfera della volontà, ma timidamente. Lo svogliato non è che non vuole, ma piccoli conati di volontà partono da lui svanendo quasi subito. La volontà si disperde in mille rivoli ma non riesce ad annullarsi. Poiché la volontà è poca, lo è anche la nolontà.

Breve teoria del perdono. Si perdonano coloro che ci hanno offeso perché così il conto torna: un’offesa ciascuno. Ma quest’ultima è mortale.

Modestia. La modestia è la vile riuscita di chi si annulla ma solo un pochino e proprio così si mette in risalto.

Qui è vera rinuncia. L’estrema rinuncia è per me la rinuncia alle gioie del pensiero, alle Idee, alle verità seducenti e pericolose. Nulla mi importa delle gioie della vita, belle donne e ricchezza non mi dicono nulla, ma un bel pensiero, sinuoso come un serpente, una verità, la penetrazione di un difficile testo, la vittoria del mio pensiero su un altro, strapparmi tutto questo è strapparmi la carne e le viscere. Qui è vera rinuncia. Sicché a questo si volge la mia negazione favorita, si immerge qui la sua punta…

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Trattato dell’empietà, Adelphi, 1987

Educare teologicamente. Indurre con tutti i mezzi alla diffidenza. Persuadere ad aborrire il principio di nascita. Abituare a disprezzare Dio tutti i giorni.

Oggi che la canaille ha in mano la filosofia – se ne misurino i ‘problemi’ e il livello correnti – il dotto ‘arretra’ verso la teologia, rimasta più o meno immune. Vi si respira aria pura e gli stessi concetti sanno di buono. Sono ariosi e ‘celesti’. Essi hanno conservato la vecchia malizia – di acchiappanuvole.

La teologia è conoscenza del peggio; ciò è almeno tanto vero, quanto falso che essa sia conoscenza del meglio.

Dramatis personae. Il filosofo, tollerante; il teologo, tollerato.

I termini ‘elevarsi’, ‘ascendere’ sono inadatti nei confronti di Dio. Si discende a Dio, ci si abbassa.

Ne è della giaculatoria religiosa – Buono, Bello, Sapiente, Amabile… (secondo i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi) – come della giaculatoria amorosa – micina, gioia, amore, gattina.

Il teologo e il fisico. Il fisico patisce la mancanza di vita del suo oggetto; il turbamento del teologo adombra invece il terrore che esso possa avere vita.

A Gottfried Benn. ‘Intellektualistiche Theologie’ è osservare freddamente Dio – caldamente lo fu già abbastanza.

Perché si colpì il piacere dei sensi e non quello dell’intelletto? Perché non si condannò la foia di questo, la concupiscenza con cui si attaccava al concetto di Dio, la voluttà, addirittura lo spasimo, che ne provò? La concupiscenza della carne è nulla al confronto di quella dello spirito quando questo si inorgoglisce del suo osceno concetto.

Perché il pensiero dell’Universo dovrebbe elevarci sull’Universo e il pensiero di Dio non dovrebbe innalzarci su Dio? Lo si domandi a Pascal. (Pensare è disprezzare, mettere distanze, marcare di rispetto…).

Contrariamente alla religione, e come la santità, l’empietà è solitaria.

L’empio sta al santo per la dedizione con la quale sacrifica Dio e l’amore dell’altro all’amore di sé. Alla potenza della mente.

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La morte del sole, Adelphi, 1982

Il pensiero va contemplato, non letto. Solo così esso ci elegge.

Il sentimento scientifico è la rassegnazione, un sentimento di impotenza. La scienza non è solo disinteressata, neutrale, come se ciò dipendesse da una scelta che le consentirebbe altrettanto bene di non esserlo, ma impotente. L’autentico sentimento scientifico è l’impotenza davanti all’universo. Sapere è potere – non l’ha detto la scienza. Ma qualche cattivo filosofo.

Si può dire che lo spirito sociologico nasce quando si perviene a riconoscere che questa società, con tutta la miriade delle sue funzioni e gruppi di funzioni, con le sue lussureggianti stratificazioni, i suoi eserciti, le sue polizie, i sistemi industriali, le scuole, i suoi sistemi finanziari, le banche, le borse (i suoi soli, le sue lune) è soltanto rappresentazione…

La sbrigativa alternativa: ti adatti o crepi, più non basta. Non basta andarsene al lavoro, baciare la moglie, abbracciarsi i figli, salutare educatamente: bisogna battere le mani; ossia farlo con entusiasmo, andare in estasi. Al condannato non si chiede più solo che approvi la pena ma che metta lui stesso la testa nel cappio e la tenga ferma. Tutto concorre a trasformare l’assenso strappato all’individuo misero e tremante in apoteosi. Gli applausi si debbono sentire da Sirio. Più forte, ancora più forte.

Il cinico elogio del carattere non intende mascherare, al contrario, gli omaggi che si tributano alla volontà e a al suo predominio. Alla formazione del carattere è votato tutto il sistema educativo; a insegnare, cioè, ad arraffare ‘posticino’, ruolo, potere e tenerli con grinta. Volontà e poi volontà. Niente da dire. Ma perché chiamare educatore chi affila il coltello?

Che meschine e miserabili massime – che non si debba rubare, che si deve rispettare il padre e la madre… – debbano essere assolutamente obbliganti, e le verità che concernono il nostro posto nel mondo debbano essere assolutamente libere è soltanto aberrante. A questo ci ha ridotto il primato della pratica.

Non si può essere reazionari perché non c’è dove tornare; non si può essere progressisti, perché non c’è dove andare.

2 Comments

  • judi bola asia ha detto:

    Saluti! Questa è la mia prima visita al tuo blog! Siamo un gruppo di volontari e di iniziare una nuova iniziativa in una comunità nella stessa nicchia. Il tuo blog ci ha fornito informazioni utili su cui lavorare. Avete fatto un lavoro meraviglioso!

  • fabriziocaramagna ha detto:

    Grazie a voi. I feedback dei lettori sono sempre utili per il nostro lavoro.