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Frasi BelleL'aforisma in Italia

La scrittura aforistica di Lorenzo Morandotti

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Lorenzo Morandotti (nessun legame di parentela con l’aforista Alessandro Morandotti, autore del libro Minime e vissuto molti anni prima) è nato a Milano nel 1966. Giornalista professionista, ha diretto la rivista trimestrale “Como”, il mensile “22100 Como” e il quindicinale “360 gradi”. Ha fatto parte della redazione della rivista milanese di poesia e filosofia “Margo” e collaborato alle pagine culturali dei quotidiani “La Provincia” di Como e “Corriere del Ticino” di Lugano. Ha inoltre lavorato come caporedattore a “Millennium Cultura”, una delle prime riviste culturali in Internet diretta da Donatella Bisutti. Dal 1995 al 2004 è stato redattore della rivista letteraria “La Clessidra” di Novi Ligure. Dal 1997 è redattore delle pagine culturali del quotidiano “Corriere di Como”, abbinato al “Corriere della Sera”, dove cura anche l’inserto settimanale dedicato al tempo libero “Vivicomo”. Collabora con il periodico di letteratura “Satisfiction”.

Suoi testi di poesia, narrativa e critica letteraria sono stati pubblicati in varie plaquettes, riviste e antologie che gli hanno valso numerosi riconoscimenti e premi letterari. Nell’ambito del genere aforistico il testo più importante di Lorenzo Morandotti è Crani e topi (“Nel cranio si avverte odore di chiuso. Ed è impossibile aprire finestre” si legge in uno degli aforismi del libro). Iniziato nel 1985 è uscito a più riprese sia in volume (plaquettes) che su riviste e antologie. Per ultimo sul sito di  Mauro Germani , Crani e topi è ancora inedito nella sua versione completa.

Lorenzo Morandotti fotografato da Mattia Vacca (foto per gentile concessione dell’autore)
A proposito della sua scrittura aforistica, Lorenzo Morandotti mi scrive di sentirsi molto legato all’opera di Roman Opalka, pittore recentemente scomparso: “Per me l’aforisma non è da intendere solo in senso classico, ma anche come campo di tensioni letterario in cui far agire poesia, biografia, etica, indignazione, pathos, eros, e naturalmente il vibrare delle opere e dei giorni che scandisce la quotidianità, dal momento della nascita a quello della morte. Dalla culla alla bara passando per l’immancabile alcova. Una specie di work in progress che dura tutta una vita, come i dipinti del polacco Roman Opalka. L’artista ‘che sfidava Crono’, come lo ha definito il ‘Sole 24 Ore’, da anni dipingeva con il colore bianco la numerazione progressiva dei numeri razionali, dall’1 all’infinito, aggiungendo a ogni opera una infinitesima percentuale di bianco, per tendere all’assoluto”.

Proprio come nell’opera di Roman Opalka, gli aforismi di Morandotti sembrano fluttuare nel limbo tra la forma fissata, stabile (seppur influenzata da elementi casuali), e un contenuto non del tutto comunicabile ma percepibile. Essi sono piccoli schizzi (talvolta dei veri e propri “flash”) di percezioni quotidiane di oggetti (“La dimensione antica e cosciente degli oggetti)” e persone che vengono trascritti attraverso un linguaggio fortemente simbolico e onirico (a volte ci sono una oscurità e una enigmaticità quasi cercate). Alle lampeggianti riflessioni si alternano parentesi narrative, ritratti e frammenti di autoritratto, sogni che spalancano o terrorizzano la mente, brevi note di viaggio, citazioni improvvise. La forma verbale lascia spesso soggetto e tempo verbale nella più completa indeterminazione, ricordando in questo lo stile di Elias Canetti. I temi presenti negli aforismi di Morandotti sono molteplici ma hanno come comun denominatore la desolazione e il male di vivere, un tessuto nero squarciato dallo stupore, da quella che Emil Cioran definisce “la tentazione di esistere”: “Quei cinque gattini, nati da pochi giorni, che avvolsi in una tela cerata e provvidi personalmente a seppellire nel bosco, ancora vivi; l’anatra muta (ma come urlava) che fu allegramente sgozzata dalla vicina, con la punta di un cacciavite; la trota che oggi fissava dal piatto. Ecco chi mi visita, se cedo al sonno” scrive in uno dei suoi aforismi. E in un altro: “Mattino che scende violento sul capo, dopo una notte di stanchezza e resistenza. La bocca morta, abitata dalla luce“.

Presento qui di seguito una scelta di aforismi (la maggior parte inediti) tratta da Crani e topi. In uno degli ultimi Lorenzo Morandotti scrive in modo molto lucido sulla forma breve: “Non lo sgomenta affatto che la cosa migliore scritta in trent’anni di tentativi, scarabocchi e sempre più ridicole edizioni ne varietur sia una frase di due sole righe. Anzi, motivo in più per gettare tutto il resto nella spazzatura”.

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Lorenzo Morandotti, Crani e topi (aforismi scelti)

Se si vive, è perché tutto sia reso sensibilmente impossibile. È questo sottile difetto a porlo infine, nella sua precisa insistenza, ordinato.

Li vedi con le facce lamentose scaricare bagagli, precipitarsi ai botteghini, traslocare furiosamente da un treno all’altro, in cerca di una stanza dove potersi commuovere.

Non si ha coraggio di mirare al cuore, e allora si parla del tempo.

Chi t’insegna a dipingere una soglia non è detto che la sappia anche varcare.

Una seggiola rotta, esposta alle intemperie. Abbandonato così, ti spegneresti prima?

Il piccolo giardino rovinato da statuette leziose, bianche e sottili, ma dalla forma incerta, incapaci persino di esclamare la povertà del responsabile. Dicono solo siamo qui, ci hanno volute. E la coppia matura che passa e le osserva per un attimo, poi si accomoda in panchina, dice che sono belle.

Simpatico animale a forma di tau, da qualche giorno sulle piastrelle del bagno. Forse vorrà costruire il nido nella scatola della luce, dimenticata aperta dall’elettricista. Privo di curiosità per tutto quel rame barocco.

Paradossi del corpo. Proprio il sedere, l’unica parte a fregiarsi di un verbo all’infinito, è quella meno pronta all’azione. E la più incline a riposo e cedimento, indifesa di fronte al destino: la puoi colpire con un calcio o sfiorare leggermente, con il palmo della mano.

Visti spuntare i primi fiori, li ho invidiati in silenzio.

Poesia come differimento dell’imperfezione.

Nel porto. Anticamera del mare che si svuota e si riempie, come un polmone.

Abiti ostinati ad avvolgere i corpi. Per impedire che esplodano.

I denti sono, dello scheletro, la sola parte visibile in vita senza provocare traumi. Per questo siamo destinati a curarli con tanta devozione. E nei momenti migliori li chiamiamo sorriso.

Quei cinque gattini, nati da pochi giorni, che avvolsi in una tela cerata e provvidi personalmente a seppellire nel bosco, ancora vivi; l’anatra muta (ma come urlava) che fu allegramente sgozzata dalla vicina, con la punta di un cacciavite; la trota che oggi fissava dal piatto. Ecco chi mi visita, se cedo al sonno.

Mattino che scende violento sul capo, dopo una notte di stanchezza e resistenza. La bocca morta, abitata dalla luce.

Siamo già arrivati alla fine del mutismo, eppure ci ostiniamo a conversare. Troppo distanti dalla finestra per gettarci e tuttavia quanto basta vicini per immaginare il volo giù dal quinto piano.

Apri le porte a chi ha la precedenza, emani qualche buongiorno a mezza voce; premi soprattutto, innumerevoli bottoni. Affronti a testa bassa le più assurde giornate, senza troppe domande. Poi la sera, steso sul tuo letto, chiedi un sonno che duri mille anni.

Leggo fra le righe, traduco frasi ignote da pensieri che non capisco. Mitigo l’aria ostile della scrittura.

Le braccia ridotte a ridicoli moncherini, il maestro di danza indossava un tutù rosa che faceva risaltare il suo ventre, gonfio d’alcool. Ma la giovane allieva che aveva preso con sé per chiarire meglio una figura volteggiava soddisfatta nella sala.

Morire come il sole, dietro la nuvola o la casa.

Il vero lettore è sempre in ritardo. Ma non se ne accorge affatto.

C’è un lieve imbarazzo nella voce, ogni volta che la conversazione si prolunga. Quasi volessimo chiedere scusa di essere al mondo.

In mare freddo e calmo, ottobre. Fare il morto come attesa della vita.

Ho sognato un condominio fatto solo di cunicoli.

Va sempre a finire così: appena tornati dal dolore ci rivestiamo delle nostre pelli.

Passeggiata nel parco, alla fine del ricevimento. La padrona di casa mostra orgogliosa una magnolia del 1840: prova che esistiamo, ma non abbastanza. I due putti di pietra con fare da monelli si salutano nell’erba.

Ciò che ho elaborato finora è una stramba fisiologia della viltà.

Tentazione e codardia. Regioni amene da esplorare issando bene in vista la bandiera con il motto Hic sunt leones.

Riconoscerei tra mille la sua scia: da quasi trent’anni indossa sempre lo stesso profumo. La sola forma di fedeltà che si concede è anche la più semplice. E le assomiglia: incorporea e pungente.

Reprimere i capricci della fantasia come fossero malsani sbadigli.

Ogni pittore considerevole si distingue anche nel buio più totale.

Nel cranio si avverte odore di chiuso. Ed è impossibile aprire finestre.

Doloroso e necessario. La vicenda umana oscillerà sempre, con la precisione simmetrica di un pendolo, tra questi aggettivi.

Unico modo lecito per suicidarsi: l’autofagia.

Ogni essere umano, al proprio passare, lascia dietro una scia di durezza e spaesamento.

Tutti questi cavi non connettono nulla. Ma possono trasportare qualsiasi cosa.

Solo la mente – l’organo meno sterile in assoluto – può concepire l’aforisma come forma negativa della prosa.

Più o meno ridicoli a seconda delle convenienze sociali, della densità e degli atteggiamenti filosofici, innumerevoli manuali tentano di spiegare come vivere bene. La morte migliore, però, non può insegnarla nessuno.

Pallore in volto e sorriso rosso al centro: tuorlo d’uomo.

La condizione umana è davvero ridicola: si diventa fanatici anche dello scetticismo.

Lo spirito non chiede e non chiederà mai pace.

Delicatezza estrema con i perfetti sconosciuti e pugni d’acciaio per parenti e amici. Solo così ci si destreggia sul palcoscenico del mondo. Dovrai essere servizievole al massimo grado – anche nei confronti di sassi e ortiche – per poterti rivelare come carogna assoluta.

La castità cui obbliga il dolore è sempre meglio della sofferenza imposta dalla castità.

Andare verso il baratro? Certo, sì. Ma ben riposati, freschi di bucato e con i denti sempre bianchissimi.

I defunti, che testardi. Viene loro concesso tutto. Perfino la bontà.

La dimensione antica e cosciente degli oggetti. Angoli diventano creature, le curve disegnano colline e seni impossibili in natura.

Non lo sgomenta affatto che la cosa migliore scritta in trent’anni di tentativi, scarabocchi e sempre più ridicole edizioni ne varietur sia una frase di due sole righe. Anzi, motivo in più per gettare tutto il resto nella spazzatura.

Premi governati dal narcisismo, invidie cocenti, plagi all’ordine del giorno. E continuate a dire che l’etologia non dovrebbe interessarsi della letteratura?

Sono in grado solo ora, a metà dell’ipotetico guado, di sottoscrivere quanto dichiara Max Frisch in Homo Faber: «La carne non è un materiale, è una maledizione».

È tutto più semplice, se collochi l’errore nella categoria degli incauti acquisti.

Il grado assoluto della solitudine è estremamente raro e anche indicibile, fino a rasentare la comicità. Può sperimentarlo, soffocato dallo sgomento, uno schizofrenico che di colpo e per sempre si trovi abbandonato da tutti i suoi personaggi.

La tragedia umana è talmente grottesca che il suo coro è composto solo da alter ego. Affollano una distesa infinita di trincee.

Si scrollò se stesso di dosso. E ripartì.

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