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Frasi, citazioni e aforismi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

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Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 23 dicembre 1896 – Roma, 23 luglio 1957) è stato uno scrittore italiano, autore del celeberrimo romanzo Il Gattopardo.

Ancora in vita Giuseppe Tomasi di Lampedusa propone Il Gattopardo a varie case editrici senza alcun successo, e solo dopo la sua morte Giorgio Bassani riesce a farlo pubblicare dalla casa editrice Feltrinelli nel 1958.

Presento una raccolta di frasi, citazioni e aforismi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tra i temi correlati si veda Frasi, citazioni e aforismi di Cesare Pavese, Frasi, citazioni e aforismi di Marcel Proust, Le frasi più belle di Italo Svevo e Le frasi più belle di Italo Calvino

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Frasi, citazioni e aforismi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

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Il Gattopardo (1958)

[Tancredi Falconeri, nipote del Principe Fabrizio] Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”

L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos’era l’amore.

L’attimo durò cinque minuti; poi la porta si aprì ed entrò Angelica. La prima impressione fu di abbagliata sorpresa […] Sotto l’impeto della sua bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandoli, i non pochi difetti che questa bellezza aveva; molte dovevano essere le persone che di questo lavorio critico non furono mai capaci.

Essi offrivano lo spettacolo patetico più di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari in cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione.

Il suo disgusto cedeva posto alla compassione per questi effimeri esseri che cercavano di godere dell’esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire?

Noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai vicerè spagnoli.

Adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che molto sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che lei capirà da solo quando sarà stato un anno tra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare.

Siamo vecchi, vecchissimi. Sono 25 secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il la; noi siamo bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso

Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio.

Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblìo, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana.

Li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle nostre teste…questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perchè non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà ove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori di imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo.

I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.

Crede davvero, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti musulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perchè avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?

Prendete un problema di qualunque natura (politico, sociale, culturale, tecnico o altro) e datelo da risolvere a due italiani: uno milanese e l’altro siciliano. Dopo un giorno, il siciliano avrà dieci idee per risolvere questo problema, il milanese nemmeno una. Dopo due giorni, il siciliano avrà cento idee per risolvere questo problema, il milanese nessuna. Dopo tre giorni, il siciliano avrà mille idee per risolvere questo problema, e il milanese lo avrà già risolto.

Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.

Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.

Aprì una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, in fondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibilmente piene di agguati, sembravano ammassi di vapori sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata attorno ai conventi come un gregge al piede dei pastori. Nella rada le navi straniere all’ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma maestosa.

Il sole, che tuttavia era ben lontano dalla massima sua foga in quella mattina del 13 maggio, si rivelava come l’autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano all’arbitrarietà dei sogni. «Ce ne vorranno di Vittori Emanueli per mutare questa posizione magica che sempre ci viene versata!».

Perché morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia

Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare.

La facoltà di ingannare se stesso, questo è il requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri.

Finché c’è morte c’è speranza.

Ancora una volta il principe si trovò di fronte a uno degli enigmi siciliani; in quest’isola segreta, dove le case sono sbarrate e i contadini dicono di ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede lì sul colle a cinque minuti di strada, in quest’isola, malgrado il suo ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito

Quando i cacciatori giunsero in cima al monte, di fra i tamerici e i sugheri radi riapparve l’aspetto della vera Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche ed aranceti non sono che fronzoli trascurabili: l’aspetto di una aridità ondulante all’infinito in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali, delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in un momento delirante della creazione: un mare che si fosse ad un tratto pietrificato nell’attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde.

È meglio un male sperimentato che un bene ignoto.

Ed il Principe, che aveva trovato Donnafugata immutata, venne invece trovato molto mutato lui, che mai prima avrebbe adoperato un modo di dire tanto cordiale; e da quel momento, invisibile, cominciò il declino del suo prestigio

Morfina lo avevano chiamato, questo rozzo sostituto chimico dello stoicismo antico, della rassegnazione cristiana.

Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca.

Il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie. Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo l’occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall’assillo che altri potessero pompeggiare più di lui.

Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.

Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.

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Racconti e saggi

Al dondolio leggero della barca nella quale restavo lunghe ore, ogni libro sembrava non più un ostacolo da superare ma anzi una chiave che mi aprisse il passaggio ad un mondo del quale avevo già sotto agli occhi uno degli aspetti più maliosi.
(da Lighea)

E, a dir vero, il sole, la solitudine, le notti passate sotto il roteare delle stelle, il silenzio, lo scarso nutrimento, lo studio remoto, tessevano attorno a me come una incantazione che mi predisponeva al prodigio.
(da Lighea)

Sono Lighea, sono figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto.
(da Lighea)

Il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare… Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere i dentici aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra voialtri… esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di vivere, una quasi divina letizia… Dai disordinati capelli color sole, l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti di infantile purezza… Sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che lenta batteva il fondo della barca. Era una sirena.
(da Lighea)

Riversa poggiava la testa nelle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto; da lei saliva quel che ho malchiamato un profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima… La sua voce era un po’ gutturale, velata, risonante di armonie innumerevoli…
(da Lighea)

Era una bestia ma nel medesimo istante era anche una Immortale ed è peccato che parlando non si possa continuamente esprimere questa sintesi come, con assoluta semplicità, essa la esprimeva nel proprio corpo. Non soltanto nell’atto carnale essa manifestava una giocondità e una delicatezza opposte alla tetra foia animale ma il suo parlare era di una immediatezza potente che ho ritrovato soltanto in pochi grandi poeti.
(da Lighea)

Io ti ho amato, ricordalo. Quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato.
(da Lighea)

Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone.
(da I racconti)

Voialtri, sempre con i vostri sapori accoppiati! Il riccio deve sapere anche di limone, lo zucchero anche di cioccolata, l’amore anche di paradiso
(Da Lighea)

Io sono una persona che sta molto sola; delle mie sedici ore di veglia quotidiane dieci almeno sono passate in solitudine. E non potendo, dopo tutto, leggere sempre, mi diverto a costruire teorie le quali, del resto, non reggono al minimo esame critico.
(da Letteratura inglese)