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Citando una frase di Flaubert sulla brevità del discorso “Qualsiasi cosa si voglia dire non c’è che una parola per esprimerla, un verbo per animarla e un aggettivo per qualificarla” Francesco Burdin scrive nei suoi taccuini che la frase di Flaubert, che per lui era dogmatica fino a pochi anni fa, lo lascia oggi incerto. Tale frase non tiene conto che ogni cosa “è di per sè indefinibile in modo assoluto; cioè la si può definire solo per approssimazione, con infinite e perplesse variazioni lessicali: in ciascuno delle quali esiste un gusto specifico, e, diciamo pure, un ebrezza della gravità“.

In questa oscillazione tra la la scrittura della brevità alla ricerca della parola unica (“qualsiasi cosa si voglia dire non c’è che una parola per esprimerla”) e la scrittura multiforme e indefinita della narrazione (“Qualsiasi cosa la si può definire solo per approssimazione, con infinite e perplesse variazioni lessicali”) c’è tutta l’essenza dell’opera di Francesco Burdin, autore di un colossale taccuino di appunti e aforismi e al tempo stesso creatore di numerosi romanzi.

Francesco Burdin (“Burden = fardello in lingua inglese, Burda = bisaccia in lingua slava. Qualche cosa che grava sulle spalle insomma” scrive ironicamente nel suo taccuino) nasce a Trieste nel 1916, ma in giovane età si trasferisce a Roma dove poi vivrà fino al termine dei suoi giorni (muore nel 2003). Di Trieste scriverà: “Sono nato a Trieste e non vi sono vissuto che per nove anni e cinque mesi. Tuttavia ho l’impressione di non averla mai lasciata: Trieste è la lingua che i miei non hanno cessato di parlare con me e che io ho sempre parlato con i miei. Ho addirittura l’impressione di essere vissuto io a Trieste in tutti questi anni, e che i miei cittadini siano vissuti altrove”.

Francesco Burdin è autore di diversi romanzi (“Guardare ai propri dodici libri allineati sullo scaffale come un padre”, scrive in una nota del suo taccuino di appunti) che hanno avuto diverse stesure nel corso degli anni: Caduta in piazza del popolo (1964), Scomparsa di Eros Sermoneta (1967), Eclisse di un vice direttore generale (1969) Il viaggio a Varsavia (1973), Marzo è il mese più crudele (1973), la trilogia Antropomorfo (1979), Davenport (1983), L’amoroso (1983), Apoteosi di un libertino (1993), La frontiera rovesciata (1997). Tra i suoi libri di racconti ci sono Ai miei popoli (1987), Manes (1988) e Cinque memoriali da Vienna (romanzi e racconti, 2001).

In molte note dei suoi appunti Francesco Burdin si considera uno dei più grandi narratori del 900 (a mio modesto parere lo è davvero), ma in un mondo editoriale dominato da meccanismi che dopo anni e anni continuo ancora a non comprendere lo scrittore triestino non ha avuto quel riconoscimento che meritava (“Ho partecipato per la prima volta al Premio Strega nel 1965: ottenni 17 voti. Per la seconda volta nel 1974 ed ottenni di nuovo 17. Non ho più partecipato a causa di quel numero infausto. Nella votazione del 1965 il mio cognome fu letto successivamente, per tre volte, un puro caso. ‘Ma che vuole questo Burdin?’ disse con stizza Alberto Moravia”.

Ovviamente – e qui pesa parecchio la marginalità del genere letterario – anche le opere aforistiche di Burdin, Frammenti di un mondo in bilico del 1991 (comprendente circa 389 testi) e Un milione di giorni del 2001, (quest’ultimo il frutto di una rivisitazione e di una risistemazione globale della sterminata mole di oltre 5000 appunti e aforismi su foglietti sparsi condotta dall’autore e dal curatore, il professor Gino Ruozzi, che ha portato alla selezione finale di circa 2000 aforismi e forme brevi), hanno avuto una risonanza davvero minima.

Eppure leggendo gli aforismi di Burdin, e in particolare le 444 pagine di Un milione di giorni, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a uno dei più grandi testi aforistici mondiali (non l’ha scritto nessun critico o recensore, lo scrivo io, la mia opinione conterà pur qualcosa dopo anni e anni di studio dell’aforisma contemporaneo!) che non merita in nessun modo l’oblio e la dimenticanza da parte della critica e dei lettori (piccola consolazione: il fatto che Un milione di giorni sia stato pubblicato da un editore prestigioso come Marsilio e che non sia ancora fuori catalogo!).

Il taccuino di Un milione di giorni, che comprende le note scritte dal 1960 fino al 1999, nasce – come scrive molto bene Gino Ruozzi che ha curato l’edizione dell’opera – da un “costante impegno non solo intellettuale, ma anche fisico, da una compagnia quotidiana con i testi che non è solo impegno di scrittura, ma anche di correzione, trascrittura, ordinamento generale del lavoro” . Dentro Un milione di giorni ci sono – come scrive Burdin – “riflessioni, osservazioni, opinioni, citazioni; ma anche dialoghi, idee di trame future; e poi aforismi, paradossi, agudezas che toccano non soltanto la letteratura, ma temi di vario genere, e che sono venuti ad affiancarsi, nel corso dei decenni, in modo apparentemente estraneo, all’elaborazione dei romanzi e dei racconti”

Come scrive ancora Gino Ruozzi, “I frammenti di Burdin presentano varie forme (…) alcune della misura di una o due righe, altri di una o due pagine. Tra queste due misure estreme si colloca la maggioranza dei frammenti”.

Burdin definisce i suoi frammenti “esercizi confessionali e anche “burdinerie” (“Non si poteva dare una veste un pochettino più preziosa a queste burdinerie che hanno già un corpo così gracile? Non si poteva – ribatto – Proprio perché hanno un gracile corpo non è il caso di vestirle più lussuosamente. Non hanno da apparire quello che non sono!”). E scrive anche: “Dunque in vent’anni ho raccolto tre migliaia di annotazioni. Altrettante saranno entrate a far corpo nelle pagine dei miei libri. Tirando le somme, sono sì e no una al giorno. (…) Una volta al giorno è stato fermato un guizzo della fantasia, un moto magari poco significante del lavorio cerebrale: ciò che era destinato alla formazione della coscienza e poteva essere affidato solo alle risorse della memoria ha lasciato una traccia cartacea; e per povera che essa sia, la mia esistenza è diventata meno povera”.

In Un milione di giorni si evidenzia uno stretto il legame tra aforismi e romanzi, come è testimoniato dai numerosi riferimenti e citazioni delle sue opere e anche dagli abbozzi di micro-storie e micro-racconti. Come scrive l’autore in una sua nota: “Raccolgo pensieri, osservazioni, immagini per i miei personaggi. Poi si mi accorgo che si adattano benissimo a me e li travaso qui dentro (si intende nel taccuino). Oppure annoto immagini, osservazioni e pensieri per questo taccuino. Poi si accorgono che si adattano a un libro che sto scrivendo, e li travaso nei miei personaggi”.

Poche le recensioni relative ai romanzi di Francesco Burdin, quasi nessuna per l’opera aforistica (nella nota bibliografica a Un milione di giorni, Gino Ruozzi ne presenta uno scarno elenco). Pressoché assente l’autore su internet tanto che Wikipedia non gli dedica neanche una voce (a titolo di curiosità segnalo tuttavia che Burdin è stato curiosamente incluso nell’antologia dell’aforisma mondiale di James Geary “Geary’s guide to the world’s great aphorists” che però ha il limite di citare pochi autori italiani).

In una sua nota del 1970 Francesco Burdin scrive: “Si lavora per un numero ristretto di persone: cento, duecento. Ma anche al di fuori della scrittura, il medico, l’avvocato, l’architetto, il giornalista, il dirigente d’azienda non hanno un pubblico maggiore. La gloria che ci preme è limitata a una sparuta tribù di intenditori”. Non so di quante persone è composta la sparuta tribù di intenditori dell’opera di Burdin, ma sicuramente ne faccio parte anch’io.

Presento qui una breve selezione di aforismi tratti da “Un milione di giorni“.

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Francesco Burdin, Un milione di giorni”, Marsilio, 2001

“Fa male la prima volta, dopo dà soltanto piacere”.
Frase maliziosa di Laclos.
Se si potesse dire così della vita, solo che ne avessimo a disposizione più di una!
(1960)

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Mi piace stare insieme agli animali. Accanto alle piante. Davanti al mare o alle montagne. Mi piace contemplare il vagabondaggio delle nuvole o la stabilità della notte stellata.
Non cerco la compagnia degli uomini. Ne ho già uno indosso, mi basta e mi avanza.
(1961)

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Non appena una donna diventa famosa, il desiderio comune a tutti gli uomini è di vederla fotografata nuda.
Non appena un uomo diventa famoso, il desiderio comune a tutti gli uomini è di vederlo fotografato morto.
(1962)

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La pelle umana: permeabile dall’interno verso l’esterno per consentire la sudorazione; impermeabile dall’esterno verso l’interno per impedire la penetrazione attraverso i tessuti di qualunque liquido.
Non sorprende che l’anima umana si comporti con uguali criteri a senso unico.
(1963)

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Ha udito troppo fine, palato troppo sensibile, occhio troppo vigile, sensi troppo in allarme, sonno troppo leggero, intelligenza troppo acuta.
L’eccesso trasforma tutte le qualità in difetti.
La sua vita è infelice.
(1964)

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Definiamo civiltà greca l’organizzazione sociale nella quale l’omosessualità era un uso comune, la schiavitù una regola, l’esclusione della donna dai diritti civili una norma di legge, la patria un municipio rurale.
(1966)

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L’appellativo di “Grande” è stato concesso per l’ultima volta nel secolo XVIII, a due sovrani russi, Pietro e Caterina, e a uno prussiano, Federico. La Storia è bizzarra: diede quel titolo a Pompeo e non a Cesare; a S. Gregorio e non a S.Agostino; a Erode e non a Cristo.
(1970)

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Sei un bravo scrittore, un grande giornalista, un uomo straordinario!” dico all’amico A.A.
L’amico non si mostra soddisfatto dell’elogio.
Si attendeva, troppo tardi me ne accorgo, una diversa distribuzione degli aggettivi.
(1970)

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I servi che per sei giorni attendevano il pomeriggio domenicale di libertà. Gli operai che per esigenze della fabbrica avevano un solo giorno di riposo al mese. I marittini che non conoscono franchigia per sei mesi. I guardiani di fari che attendono di lasciare l’isola una volta all’anno. I missionari che rientrano in patria per una breve vacanza dopo venti o trent’anni trascorsi in colonia. La massa di uomini che non hanno conosciuto il sapore della libertà se non sul letto di morte.
(1971)

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Colpo di fulmine: sintagma usato solo in associazione all’innamoramento.
L’esperienza insegna che l’uso sarebbe assai più appropriato per il disinnamoramento.
(1972)

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I vantaggi dell’ignoranza.
Fino alla maggiore età ignorò di essere figlio illegittimo.
Fino alla scomparsa della moglie ignorò la di lei infedeltà.
Fino alla morte avvenuta incidentalmente ignorò di essere affetto da male incurabile.
(1974)

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Solo la fama e con essa il reddito rendono professionale lo “scrittore”.
Fino a che resta oscuro, appare agli occhi dei conoscenti e degli stessi famigliari nulla più che un innocuo e scontento “amateur”
(1977)

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Soltanto le opere minori appartengono a un “genere”
(1981)

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La morte lo colse all’improvviso. Ma con una ragguardevole presenza di spirito, rimediò buttandosi sulla poltrona e componendo il viso nella più decorosa delle espressioni. L’ipocrisia aveva vinto fino alla fine.
(1984)

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L’uomo ha conosciuto per cinquecentomila anni la fame, il freddo, la violenza.
Questa è la prima generazione umana che non conosce alimenti genuini e il mare pulito.
(1985)

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Un successo letterario clamoroso riesce a spegnere l’invidia, non ad accendere la stima.
(1985)

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Ho sempre desiderato, come il miglior bene al mondo, di avere amici. In qualche periodo ho avuto qualche amico. Nessun amico è durato più di tre o cinque anni.
Tardi ho imparato che l’amicizia è un contratto di mutuo soccorso: chi non ha i mezzi per soccorrere, o li ha perduti, perde gli amici.
Tutti lo sapevano, io solo ne ero all’oscuro.
(1989)

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Vi sono Paradisi (o vi è un unico Paradiso?) in cui i guardiani recidono i tendini ai nuovi arrivati per toglier loro la voglia di fuggire.
(1989)

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In un pensionato di ex militari un vecchio di novant’anni indica al visitatore un altro vecchio:
“Le presento un mio bravo subalterno”
Colui si inchina e si dichiara confuso dell’onore che gli viene fatto da Sua Eccellenza.
Entrambi si riferiscono a rapporti gerarchici durati tutt’al più pochi mesi e cessati da un quarto di secolo.
(1989)

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L’importanza di non essere secondi.
Dopo l’impresa americana del 1969, nessuno ha più speso un soldo per tentare la scalata alla luna.
Non vi era nulla da portar via.
(1990)

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Andando avanti negli anni non ho imparato a scrivere. Ho imparato a leggere.
(1990)

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Il problema più importante, quello della morte, è trattato sempre e solo da incompetenti. Non conosciamo il parere di nessun esperto.
(1990)

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La celerità con la quale i protagonisti della storia hanno compiuto il loro percorso.
Napoleone in sette anni fu imperatore. In altrettanti Hitler sottomise l’Europa. Alessandro morì a trentatré anni. Come Cristo, la cui azione durò solo tre anni. Quella di Maometto non più di dieci.
(1991)

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Perché l’evocazione del passato desta amarezza? Fin dal giorno natale il meglio della vita sta per ognuno di noi dietro le spalle!
(1991)

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Guardare alla televisione un uomo politico da trent’anni in auge: osservare i suoi denti falsi, i suoi capelli tinti, i suoi occhi freddi ma – pensiero confortante – visibilmente prossimi ad estinguersi.
(1991)

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Racconta perdendosi in noiose minuzie un episodio da nulla durato pochi minuti; e in due sole parole un avvenimento che ha trasformato la sua vita.
Sarebbe un ottimo scrittore.
(1992)

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E’ un vanto, non più vergogna, il vendersi se questo avviene a un prezzo più alto di quello ordinario
(1995)

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Vivono nel peggiore dei modi per cercare di morire meglio che si può
(1996)

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Degli uomini in generale si può affermare che possono essere catalogati in cento diversissimi modi.
I vecchi si distinguono soltanto in allegri e tristi.
(1997)

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Il ridicolo dell’uniforme, della toga, della tonaca in un uomo anziano.
La vecchiaia non sopporta mascherature.
(1997)

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E’ stato simile a un viaggio in treno, quando si passa il tempo leggendo i giornali, pensando alla stazione da cui siamo partiti e a quella cui dobbiamo arrivare, e gettando di tanto in tanto con disattenzione lo sguardo sul paesaggio che scorre, come cosa che non ci riguarda.
Non aver capito che quel paesaggio era la nostra vita.
(1997)

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Trovarsi prossimi alla fine del gomitolo mentre si è ancora apprendisti nel tirocinio della vita
(1999)

8 Comments

  • Solitudinario ha detto:

    Mi hai convinto: trovato su IBS e ordinato al volo.
    Grazie mille per la segnalazione.

  • Ho consigliato Burdin anche nell’intervista su Booksblog per i libri di Natale. Merita davvero.
    Fabrizio

  • Sara Bauducco ha detto:

    Sulla citazione di Flaubert, concordo con Burdin. Il mondo e la visione che ogni uomo ne trae e si costruisce è ricco di sfumature; pertanto, se già risulta abbastanza difficile trovare un nome solo che definisca precisamente una determinata cosa, lo è ancor di più trovare l’aggettivo…

  • E’ vero quello che tu scrivi, ma nell’aforista c’è sempre l’ambizione di “mettere un libro intero in una pagina, una pagina intera in una frase, e la frase in una parola” come scrive anche Joubert

  • massimo ha detto:

    ho conosciuto questo sito ieri per il concorso torino in sintesi e oggi ho conosciuto questo francesco burdin. molto molto bene.

  • Negli oltre 100 articoli di questo blog ci sono molti aforisti – il cui nome, ahimè, è conosciuto solo dagli addetti ai lavori – che meritano di essere letti.
    Anche se riconosco che Burdin è uno dei più grandi.

  • massimo ha detto:

    vedo che questo blog è stato aperto un anno fa. quindi ho tutto il tempo per recuperare.
    quando ho finito di leggere la presentazione del sito e della tua persona, ho pensato a elias canetti quando dice che “la cecità è la misura del cosmo”.
    obbligatorio ormai comprare la raccolta di burdin.

  • BRUNO MODUGNO ha detto:

    Burdìn, genio letterario sconosciuto, amò molto il mio primo romanzo, “Re di Macchia”, dove si parlava di un cinghiale. Per questo, mi chiamava “porcastro”. Il libro, uscito nel 1977, entrò nella cinquina dello Strega ed ebbe un certo successo. Burdìn ne fu felice. “I miei libri hanno al massimo cinquecento lettori, perché sono libri difficili”, diceva.”Sono come l’osso. Sono duri all’esterno, ma chi ha costanza alla fine trova il piacere del midollo. Purtroppo i lettori non hanno denti robusti”. Il suo “Antropomorfo” è il romanzo più sconvolgente.