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Non è un compito facile inquadrare la scrittura frammentaria di Giuseppe Zuccarino, autore di due libri di frammenti, Insistenze (1996) e Grafemi (2007). Sono forse note di diario, riflessioni, glosse, appunti critici, aforismi?
Indubbiamente ha ragione Blanchot – citato da Zuccarino – quando scrive che forse non ha molto senso parlare di una raccolta di massime, aforismi e frammenti. «O meglio, parlandone, ci si riferisce a quella che appare essere la tendenza dominante, perché le diverse forme sono obbligate a coesistere almeno in parte». E in uno dei frammenti del primo dei due libri, Insistenze, Zuccarino scrive: «Mi comporto con la prudenza del funambolo, tenendomi, come posso, in equilibrio tra differenti tentazioni di scrittura. Ma forse la cosa migliore per me sarebbe quella di cadere, purché dal lato giusto. A volte, non sempre, mi pare anche di poterlo riconoscere».
In un altro frammento di Insistenze, Zuccarino prova a esplicare i diversi modelli di scrittura su cui si muove come un funambolo: «Una silloge di materiali eterogenei e arbitrari: frammenti pretenziosi e vacui, appunti incònditi in attesa di una improbabile revisione, schegge di saggi e recensioni, riflessioni risibili o patetiche sulla propria condizione di scrivente, il tutto accomunato da un medesimo carattere di scrittura marginale, secondaria, minore, inevitabilmente irrilevante».
Nonostante sia un compito arduo definire i diversi modelli di scrittura, tanto più in un campo come quello delle forme brevi, e nonostante sia alto il rischio di cadere dalla parte sbagliata, Zuccarino cerca più volte – “insistentemente” per riprendere il titolo della sua prima raccolta – di definire e circoscrivere quelli che sono i confini del frammento.
Per Zuccarino, «i frammenti tendono alla diaspora, alla dispersione irriducibile», «quanto più cresce la discontinuità […] tanto più siamo in presenza di frammenti», «i frammenti non sono illuminazioni, ma piuttosto “raschiature, ritagli, frantumi di ragionamenti”». Mentre «la massima ha valore universale, carattere morale e perfetta circolarità espressiva», «l’aforisma perde del tutto il primo aspetto, e in parte anche gli altri due, ma conserva il nesso con l’individualità esemplare».
Se – come scrive molto bene Roland Barthes – l’aforisma, nel suo dare una prova di sfiducia nei confronti del linguaggio comune e della sua incapacità di comunicare, tende comunque alla verità (una verità capovolta e paradossale), per Zuccarino invece il frammento tende al non detto, al non scritto e in ultima istanza al silenzio: «Scrivendo frammenti ci si sforza di raccogliere, direbbe Zanzotto, “col più granulato impetrare / quanto v’è di silenzio – ed è tanto”»; «l’esigenza frammentaria, di per sé paradossale, vorrebbe poter condurre il linguaggio fino a quegli “ambiti senza parole” o “intervalli senza parole” evocati da Valéry». E in un altro frammento: «Lo scrittore sa che, per poter esistere, deve lottare contro il silenzio, ma sa anche che non potrà mai vincere del tutto, perché “il silenzio è nella parola, come una parola da leggere”». Del resto, il frammento non conclude alcunché: «Il suo senso – ammesso che ne abbia uno – sarà piuttosto quello di suggerire che il discorso continua, altrove».
Ma le differenze non finiscono qui. Se l’aforisma è per sua natura ironico e cinico, il frammento è elegiaco e malinconico. Scrive Zuccarino: «Borges […] attribuiva ai testi poetici la proprietà di assumere agli occhi del lettore, per il solo effetto del trascorrere degli anni, una venatura malinconica: “Col tempo ogni poesia diventa un’elegia”. Anche i frammenti, nel loro piccolo e pur senza avanzare pretese di poeticità, presentano forse la stessa caratteristica». Il frammento è anche più discontinuo rispetto all’aforisma: «Il frammento presuppone la necessità del proprio interrompersi, per cedere il passo ad altri, che verranno a loro volta scalzati dai successivi, fino all’interruzione autentica: non la fine del libro (che non c’è, trattandosi di frammenti), bensì quella dell’esistenza di chi lo scrive».
Come osservavo prima, le riflessioni sul frammento pervadono – in modo “insistente” – tutte e due le raccolte di Zuccarino. Uno dei fili conduttori di Insistenze e Grafemi è il tentativo di una critica al frammento in forma di frammento. Così scrive Zuccarino: «Novalis ipotizzava o auspicava una “critica ai frammenti in frammenti”, ma la scrittura frammentaria ha già in sé una forte componente autoriflessiva, anzi spesso non fa che sdoppiarsi ed osservarsi dall’esterno; il che ovviamente non significa che sia sempre soddisfatta di ciò che vede». Il modello del frammento sul frammento coltivato da Zuccarino non è certo raro nell’ambito delle forme brevi. L’ossessione definitoria è una caratteristica del genere breve, forma ibrida alla ricerca di una propria identità rispetto ai generi più classici della poesia e della narrativa.
Il tema del frammento sul frammento si inserisce all’interno di un tema più vasto, quella della riflessione sulla scrittura (l’atto, il gesto di scrivere) di cui Zuccarino si fa commentatore ed esegeta. «Ogni spazio fra le lettere o le parole offre al commento un varco entro cui insinuarsi: con tante fessure e interstizi, come può un testo credersi concluso, compatto e autosufficiente?». Il frammento diventa così lo strumento privilegiato attraverso cui il commentatore esercita la sua funzione. Come ha ben scritto nella prefazione a Insistenze Marco Ercolani, «chi stila queste note, Hermes impassibile e disincantato, conduce il lettore alle soglie di quel “sonno ad occhi spalancati che chiamiamo scrittura” e gli impone di resistere ai confini del suo sogno, con caparbia e silenziosa disperazione». Le riflessioni di Zuccarino sulla scrittura toccano temi come la letteratura, l’arte, la critica. Nei frammenti non c’è solo un’attenzione per il linguaggio verbale, ma anche per le immagini prodotte dagli artisti, con una particolare attenzione per alcuni di essi, come Giacometti, Bacon o Tàpies.
Gli esiti della scrittura frammentaria di Zuccarino appaiono diversi nelle due raccolte. In Insistenze il frammento è più breve, folgorante, e tende alla forma della «scheggia», alla «limatura di ferro», al «precipitato» chimico. In Grafemi il frammento breve («ciò a cui tende il frammento è a fissare ogni volta qualcosa di fuggevole, che si mostra solo quando è sul punto di svanire: questo tipo di scrittura, dunque, è strettamente legata ad una apparizione momentanea, ovvero ad una sparizione imminente») si alterna con il frammento più lungo e con il modello della nota critica. Prevale in Grafemi quello che Zuccarino definisce il dialogo con la citazione: «Dialogare con una citazione è, per il frammento, quasi una necessità, un modo – più efficace di altri – per combattere la solitudine, per inventarsi un interlocutore (“for company”, direbbe Beckett)»
Presento al lettore di Aforistica/mente una scelta di frammenti tratti da Insistenze e Grafemi. Sul sito di Nanni Cagnone, è possibile leggere alcuni inediti comparsi successivamente a queste due raccolte e intitolati Rifrazioni.
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Giuseppe Zuccarino, Insistenze (Graphos, 1996)
Il critico tenta, con strategia vampiresca, di garantirsi la sopravvivenza a danno delle opere, assorbendo la loro energia vitale. Suo desiderio inconfessato è la distruzione dell’oggetto cui la sua analisi si applica. Come i guerrieri delle tribù cosiddette primitive, egli è persuaso, più o meno consciamente, che il suo mana cresca col numero delle vittime.
Se si considera in che misura un’opera finita tiene a distanza chi l’ha prodotta, apparirà chiaro quanto dev’essere imbarazzante dover giustificare e difendere davanti ad altri ciò che forse non si è mai posseduto e che ora appare più che mai estraneo ed autonomo. Certo si difenderebbe meglio (e forse anche si conosce meglio) il lavoro altrui, piuttosto che questo oggetto sfuggente e inappropriabile.
Sentire il linguaggio è percepirne la materialità, come il sapore dell’inchiostro nella bocca.
Ogni scrittore, ai suoi inizi, va alla ricerca di una propria via verso l’espressione. Ma, nel far ciò, deve imporsi di non pensare troppo al fatto che tale via può non esistere, o esistere ma non essere accessibile, o essere accessibile ma non riconoscibile, o infine essere una strada che si può percorrere solo nel silenzio, nella non-scrittura.
Forse sto solo tentando di arabescare, dall’interno, la mia pietra tombale.
Che le caratteristiche anche minime dell’aspetto esteriore di un libro possano essere significative – sia perché implicano scelte estetiche e ideologiche, sia perché agiscono sul sistema di attese del lettore – è cosa che la critica si ostina ad ignorare, ma che è nota da sempre alla passione del bibliofilo e del collezionista.
Occorre spiare il foglio fino a coglierlo nel momento in cui si sgomenta del suo stesso biancore.
La mia lampada da tavolo che, guasta, di tanto in tanto si spegne lasciandomi al buio, mi ricorda che la dimensione della scrittura è quella dell’intermittenza, della discontinuità.
Si vorrebbe forse iniziare a scrivere quasi senza accorgersene, scivolare insensibilmente nello scritto così come si scivola nel sonno. Ma la scrittura è l’insonnia stessa.
La parola è sempre un supplemento, non della «vita», ma di un’altra parola.
Le parole che arrivano non sono mai quelle che si erano invitate; ma si finisce ugualmente con l’accoglierle, a volte sgarbatamente, ma con segreta gratitudine.
Si esce dal libro, dopo averlo scritto, come da un albergo: senza poter portare con sé la propria chiave, che del resto non si è mai posseduta veramente.
Il commentatore, a differenza del critico, non legge per scrivere, ma piuttosto scrive per leggere, per approssimarsi alla dimensione della lettura.
Un foglio quadrettato è un foglio già scritto: ai vocaboli non resta che situarsi entro una gabbia che pare imprigionarli, ma da cui, quasi inavvertitamente, non cessano di debordare.
Le parole transitano sulla pagina al modo delle nuvole nel cielo: ora addensandosi compatte e quasi minacciose, ora diradandosi e frastagliandosi, a formare strane e mutevoli configurazioni, ora infine sparendo del tutto, per lasciare il posto alla limpidezza, sia pure momentanea, dell’assenza di parole.
Ogni spazio fra le lettere o le parole offre al commento un varco entro cui insinuarsi: con tante fessure e interstizi, come può un testo credersi concluso, compatto e autosufficiente?
Molti frammenti potrebbero affermare di sé, come Beckett: «Non ho niente da dire, ma posso solo dire fino a che punto non ho niente da dire».
Leggere è come seguire, sul palmo aperto del foglio, delle linee, che appaiono tanto più fitte e intricate quanto più si osserva da vicino.
È come se tra un frammento e l’altro ci fosse sì un ponte, ma un ponte crollato.
La scrittura frammentaria non può illudersi di sfuggire a qualsiasi forma di totalizzazione. Ma il frammento, quand’anche l’inclusione in un’opera gli venga imposta dall’esterno, resta pur sempre, secondo l’espressione di Adorno, «quella parte della totalità dell’opera che resiste alla totalità stessa».
La pagina bianca, col tempo, si screpola da sé come un’antica tela dipinta: le craquelures che si formano sono appunto i frammenti.
«Attorno alla parola si addensa la neve» (Celan), quella bianca come il foglio, quella che non viene in inverno e non si lascia spalar via, quella di sempre: «la neve del taciuto».
«Si deve fare esattamente quel che c’è davanti», diceva Giacometti, ma aggiungeva subito: «E, per di più, bisogna anche fare un quadro». Non dissimile è il compito del commentatore, che deve tentare l’impossibile restituzione del testo che ha di fronte, e nel contempo deve, come meglio può, dar forma ad un altro testo, il proprio.
Vi erano, in passato, delle icone che venivano – in parte o interamente – ricoperte di lamine d’oro, per impedire che la loro bellezza accecasse il contemplante. Poi si è scoperto che, a questo scopo, poteva tranquillamente bastare il velo costituito dalla parola del critico.
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Giuseppe Zuccarino, Grafemi (Joker, 2007)
A volte i margini irregolari del frammento possono far sorgere il sospetto che altrove esista la parte mancante, quella che, affiancata, combacerebbe in ogni punto, reintegrando l’unità. Ma in effetti non è così: neppure in questo senso il frammento si lascia ridurre a simbolo.
Uno dei Proverbi già attribuiti a Jacopone ammonisce: «Dov’è plana la lectera non fare scura closa». E in effetti una delle tentazioni più costanti, per il critico, è proprio quella di ipotizzare per il testo studiato significati ardui e tortuosi, a ben vedere altamente improbabili. Ma questo difetto non è che il rovescio di un altro, forse ancor più frequente, che consiste nell’appiattire e banalizzare l’effettiva complessità del testo.
Racconta Plutarco: «Una volta uno cercava di mettere dritto in piedi un cadavere; poiché nonostante tutti gli sforzi non ci riusciva, disse: “Perdìo, ci manca qualcosa dentro”». Non dissimili devono essere, nei momenti di lucidità, le riflessioni di quegli editori che – com’è ormai la regola – ogni anno si affannano a lanciare sul mercato autori sempre più inconsistenti.
Il deserto non è solo paesaggio, distesa infinita di sabbia da contemplare a distanza, ma (come mostra Bacon in Sand Dune, 1981) è anche qualcosa di più prossimo ed inquietante, che può sorprenderci ovunque, persino tra le mura protettive della stanza da bagno.
Ciò a cui tende il frammento è a fissare ogni volta qualcosa di fuggevole, che si mostra solo quando è sul punto di svanire: questo tipo di scrittura, dunque, è strettamente legata ad una apparizione momentanea, ovvero ad una sparizione imminente (Caproni univa i due concetti in un solo vocabolo, quando parlava di «asparizioni»).
Il traduttore ha in comune col critico il fatto di scrivere – e dunque di esplicitare – la propria lettura dell’opera. Ma mentre il critico può scegliere di focalizzarne solo certi aspetti, chi traduce è costretto a (o ha il privilegio di) percorrerla punto per punto, vocabolo per vocabolo.
Forse non è casuale che, oltre a dedicarsi agli esperimenti per la stampa dei libri, Gutenberg fabbricasse piccoli specchi. I due tipi di oggetti sono apparentati fra loro dal fatto di permettere a chi li esamina di proiettare per un po’ su di essi la propria immagine, ma non di alterarli in modo durevole.
A volte, dalla pece della mente, le parole affiorano per un istante, e si rituffano prima che possiamo «arruncigliarle», lasciandoci dunque delusi, come i diavoli danteschi di fronte all’astuzia dei barattieri.
Certo, comporre frammenti può sembrare improduttivo, ma, come diceva Michaux, «anche chi vanga le nuvole bisogna incoraggiarlo, perché a suo tempo farà dei raccolti di nuvole, ed è assai lieto quando ci si ritrova in mezzo».
Il desiderio di scrivere ha l’ostinazione dell’onda, che sempre si spinge ad invadere lo stesso lembo di spiaggia e sempre è costretta a rifluire.
Scrivere frammenti di sera significa guardare ora il foglio, nella breve area del tavolo illuminata dalla lampada, ora il buio circostante, come se proprio da quest’ultimo si attendesse un suggerimento; poi tracciare parole che, per paradosso, saranno attorniate non dal nero, ma da quel bianco che, immancabile, precede e segue ogni frammento.
In quello che è forse il suo libro più noto, Roger Caillois ha suddiviso i giochi umani in base a quattro categorie: agon (la competizione), alea (il caso, l’azzardo), mimicry (l’imitazione, il mimetismo) e ilinx (la vertigine). È interessante notare che la scrittura, se praticata in modo adeguato, implica tutte e quattro le componenti individuate da Caillois. Viene dunque a configurarsi, al pari dell’arte in genere, come una sorta di «gioco dei giochi».
«È strano come il passare del tempo trasformi ogni opera – dunque ogni uomo – in frammenti. Nulla d’intero sopravvive», dice Valéry. La scrittura frammentaria non fa che giocare d’anticipo, assecondando e affrettando un processo di per sé ineluttabile.
Le parole non si possono raccogliere all’aria aperta, staccandole come frutti dagli alberi. Occorre estrarle come tartufi, scavando a fatica il terreno.
Notava una volta Zanzotto che «parlare è troppo poco, mentre morire è troppo». La scrittura letteraria in genere (e non solo quella poetica, come suggeriva l’interessato) costituisce lo stadio intermedio fra l’effimero della parola pronunciata e il definitivo della morte avvenuta.
Uno dei problemi (irrisolti) dello scrittore è il seguente: come fissare sulla carta i momenti vuoti? Eppure essi svolgono nell’esistenza di ciascuno un ruolo così rilevante che sarebbe ingiusto passarli sotto silenzio.
Col passare degli anni, si diventa sempre più propensi ad accogliere il suggerimento di Mandel’štam: «Distruggete i manoscritti, ma conservate ciò che avete tracciato a margine, per noia, per disperazione e come in sogno». È a questa esigenza che si sforzano di rispondere i frammenti.
Lo scrittore sa che, per poter esistere, deve lottare contro il silenzio, ma sa anche che non potrà mai vincere del tutto, perché «il silenzio è nella parola, come una parola da leggere» (Jabès).
Per il frammento, vale ciò che Adami dice del disegno, ossia che «le sue radici stanno nelle cancellature, invisibili sotto il bianco del foglio».
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Nota biografica
Giuseppe Zuccarino, nato nel 1955, è critico e traduttore. Ha pubblicato vari volumi di saggi (La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Joker, 2009) e di frammenti (Insistenze, Genova, Graphos, 1996; Grafemi, Novi Ligure, Joker, 2007). Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Aria di Solmi, di “cattivi pensieri”, dell’intelligenza che consente alla propria fallacia. Eccellente selezione.
signifying nothing
(così, en passant)
bell’introduzione; viene da domandarsi: se il “romanticismo” del frammento di fronte all’aforisma non sia tanto il problema del pieno e del vuoto, dell’esemplaritàverità o sua assenza, ma piuttosto quello della fedeinteressamento verso un oggetto considerato ora inesistente ed interno o, al contrario, esistente esterno al detto e alla sua scansione
(non so se si capisce il punto, ho fiducia di sì; ma al solito: pensieri in libertà)
Riflessione sicuramente stimolante. Se l’aforisma è un genere essenzialmente “sospettoso” nei confronti della realtà per dirla con Barthes, nel frammento c’è questa specie di “fede” o “interessamento” o “tensione” verso qualcosa.
il diivertente di questi (miei) discorsi sui massimi sistemi è che permettonosi fondano su un’ironia senza fondo:
nello specifico io mi riferivo a una mancanza d’oggetto pensando ai frammenti (anche a quelli – interessanti – dell’autore postato) e a una scrittura che ri-scopre come “il silenzio è nella parola”, mentre più facilmente avrei visto un oggetto (“concreto”, esistente) all’aforisma, classico, che pur sospettoso si rivolge al fuori di sè per farne scienza o morale o quant’altro.
ma è un discorso abbastanza ampio da permettere qualsiasi smottamento; soprattutto poi se pensando all’aforisma si pensa anche ai suoi effetti di pointe, i calembour, i paradossi…
più che una risposta vera e propria o una tesi da sostenere, giusto mettere in mostra l’ironia della comunicazione (anche se probabilmente dovuta, in questo caso, a una mia fallacia nell’esposizione) 😛
Credo di aver colto quanto dice. Sicuramente la relazione tra aforisma e frammento è molto più difficile da inquadrare e quindi da definire rispetto alla relazione tra aforisma e massima o aforisma e proverbio.