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Mahmoud Darwish, scrittore palestinese considerato tra i maggiori poeti del mondo arabo, ha raccontato l’orrore della guerra, dell’oppressione, dell’esilio (al-Birwa, suo villaggio natale, è stato distrutto dalle truppe israeliane durante la Nakba e ora non esiste più, né fisicamente né sulle cartine geografiche)
Mahmoud Darwish (nato il 13 marzo 1941 al-Birwa e morto il 9 agosto del 2008 a Houston in Texas, dopo un delicato intervento al cuore) in diverse interviste ha sempre detto di non poter scrivere una autobiografia perché già contenuta nei suoi scritti. Per tutta la sua vita si dedicherà alla poesia, trasformandola in una “patria” per il popolo palestinese apolide.
Mahmoud Darwish si definisce “un poeta troiano” quando descrive lo stato d’assedio e la distruzione della sua città dal punto di vista degli sconfitti. E a proposito della storia scrive: “La storia è un diario d’armi scritto sopra i nostri corpi”.
Presento una raccolta delle più belle poesie del poeta palestinese Mahmoud Darwish. Tra i temi correlati si veda Le più belle poesie brevi e Frasi, citazioni e aforismi sulla guerra.
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Le più belle poesie del poeta palestinese Mahmoud Darwish
Pensa agli altri
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
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Profugo
Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.
Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano.
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Palestinesi sono i tuoi occhi,
il tuo tatuaggio.
Palestinesi sono il tuo nome,
i tuoi sogni
i tuoi pensieri e la tua kefia.
Palestinesi sono i tuoi piedi,
la tua sembianza
le tue parole e la tua voce.
Palestinese vivi e palestinese morirai.
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Potete legarmi mani e piedi
Potete legarmi mani e piedi
togliermi il quaderno e le sigarette
riempirmi la bocca di terra
la poesia è sangue del mio cuore vivo
sale del mio pane,
luce dei miei occhi,
sarà scritta con le unghie,
con lo sguardo
e col ferro.
La canterò nella cella della mia prigione
nella stalla
sotto la sferza
tra i ceppi
nello spasimo delle catene.
Ho dentro di me milioni di usignoli
per cantare la mia canzone di LOTTA.
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Alla stazione di un treno caduto dalla mappa
Da buoni e ingenui dicevamo: Il paese è nostro,
è il cuore della mappa, nessun malanno esterno lo colpirà.
Il cielo era generoso con noi, che parlavamo arabo classico
solo raramente: nelle preghiere e nelle notti del Destino.
Il nostro presente ci teneva compagnia: «Insieme viviamo»,
mentre il nostro passato ci confortava:
«Se avrete bisogno di me, tornerò». Così, da buoni e sognatori,
non vedemmo il futuro rubare il passato, sua preda, e andarsene
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Carta d’identità
Ricordate!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila
Ho otto bambini
E il nono arriverà dopo l’estate.
V’irriterete?
Ricordate!
Sono un arabo,
impiegato con gli operai nella cava
Ho otto bambini
Dalle rocce
Ricavo il pane,
I vestiti e I libri.
Non chiedo la carità alle vostre porte
Né mi umilio ai gradini della vostra camera
Perciò, sarete irritati?
Ricordate!
Sono un arabo,
Ho un nome senza titoli
E resto paziente nella terra
La cui gente è irritata.
Le mie radici
furono usurpate prima della nascita del tempo
prima dell’apertura delle ere
prima dei pini, e degli alberi d’olivo
E prima che crescesse l’erba.
Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro,
Non da un ceto privilegiato
e mio nonno, era un contadino
né ben cresciuto, né ben nato!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
Prima di insegnarmi a leggere,
e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante
fatta di vimini e paglia:
siete soddisfatti del mio stato?
Ho un nome senza titolo!
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Prestate attenzione!
Prestate attenzione!
Alla mia collera
Ed alla mia fame!
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Si tratta di un uomo
Cucirono la sua bocca
legarono le sue mani
alla roccia della morte
e dissero: “sei un assassino“.
Gli tolsero il cibo, gli abiti, le bandiere
lo gettarono nella cella dei morti
e dissero: “sei un ladro“.
Lo rifiutarono in tutti i porti
portarono via la sua piccola amata
e dissero: “sei un profugo“.
O tu, dagli occhi e le mani sanguinanti!
la notte è effimera,
né la camera dell’arresto
né gli anelli delle catene
sono eterni.
Nerone è morto, ma Roma no,
lotta persino con gli occhi!
e i chicchi di una spiga morente
riempiranno la valle di grano.
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Qui, ora, qui e ora
Qui, tra schegge di cose
e di nulla, viviamo
ai margini dell’eternità.
Giochiamo a scacchi, a volte,
incuranti dei destini dietro la porta.
Siamo ancora qua
a costruire da macerie
colombaie lunari.