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Le frasi più belle di Mario Soldati

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Mario Soldati (Torino, 17 novembre 1906 – Tellaro, 19 giugno 1999) è stato un intellettuale poliedrico: scrittore, giornalista, regista cinematografico, sceneggiatore e autore televisivo, capace di regalare mille personaggi, mille storie, mille trame sulla carta o in tv. Secondo Cesare Garboli: “Un romanziere dell’Ottocento con l’anima di uno scrittore del Novecento”.

Presento una raccolta delle frasi più belle di Mario Soldati. Tra i temi correlati Frasi, citazioni e aforismi di Pier Paolo Pasolini, Le frasi più belle di Italo Calvino e Le frasi più belle di Cesare Pavese.

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Le frasi più belle di Mario Soldati.

Quando riusciamo a vedere la bellezza, essa è sempre perduta.

L’umiltà è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

I libri non sono, e non dovrebbero essere, rifugio, evasione dalla vita; ma strumento per guardare più a fondo la vita, mezzo per vivere di più.

La vera bellezza ha sempre qualcosa di estremo.

Tutta la vita è un dono misterioso. Misurarlo mi sembra un’empietà.

C’era la verità, nel cielo. Ma per scoprirla ci voleva coraggio. E non lo avevamo mai, il coraggio.

Ci ho ripensato, poi, parecchie volte, ma sono sempre rimasto nel dubbio. Che cos’è l’amore?

Quella felicità sembrava così naturale, così semplice, ed era invece un miracolo che non si sarebbe più ripetuto.

Volti rugosi di formidabili vecchi che hanno ficcato lo sguardo nel mistero della vita.

Un uomo può vivere solo, solissimo; ma quando sa che intorno, invisibili, gli uomini e i luoghi gli sono amici, o almeno familiari. E quando gode la compagnia di qualche forte pensiero.

Non credo sia strana una certa esitanza a rivisitare un luogo dove si è stati felici, un certo timore di avvilire il ricordo.

Nella mia vita non mi sono mai contraddetto per la semplice ragione che su qualsiasi cosa ho sempre avuto due opinioni: la mia e il suo contrario.

Non sempre chi trionfa merita e chi merita trionfa.

La guardai. E di nuovo, come allora, come sempre, rispettai il suo silenzio.

Chi ha provato che cosa sia scoprire l’infedeltà di una donna creduta fedele… sa che alle torture della gelosia, più o meno dolorose secondo i casi, si mescola un’altra pena: ed è quella di essersi ingannati sul conto di una persona insieme alla quale abbiamo vissuto, notte e giorno, per un lungo tempo, lo stupore e l’umiliazione di vederla, in un attimo, completamente diversa da come l’abbiamo sempre vista.

Certo la cultura è studio, applicazione, informazione: ma è, prima ancora, disposizione naturale, gentilezza dell’animo.

Com’è possibile che l’immaginazione di un piacere sia più forte di questo piacere stesso?

L’uomo, penso, ha un bisogno d’infelicità pari almeno al suo bisogno di felicità.

Una divinità suprema dispone delle nostre esistenze, le intreccia, le organizza, e la mia storia sarebbe molto diversa se il Caso, calcolando con estrema precisione le frazioni di secondo, non l’avesse voluta come è.

Il vino è la poesia della terra.

Che cos’è un vino senza gli amici? Dirò pane al pane e vino al vino: dirò che un vino senza gli amici è poco più di niente.

Un vino (appena, ripeto, supera un minimo di qualità) bisogna considerarlo come il volto di una fanciulla, come un cielo, un tramonto, un paesaggio, un’opera d’arte, come qualcosa, insomma, che vive e che fa parte della nostra vita.

Probabilmente, per fare con tanta ostinata cura il vino buono, bisogna essere un po’ folli.

Non esistono, per i vini, leggi assolute. Sono esseri viventi, al pari di creature umane. Riescono come riescono: imprevedibili, vari, capricciosi. Il loro bello, e il loro buono.

Spremendo i grappoli di una vite si fa il vino: spremendo le parole di una lingua si fa poesia.

Tutti i profumi che ognuno di noi ha evocato, mentre, assorto, a occhi chiusi, fiutava il suo bicchiere, girandolo e rigirandolo tra le dita, in uno spasimo di memoria.

Ciascun sigaro toscano ha la sua assoluta individualità, né più né meno di qualsiasi creatura della natura. Più o meno panciuti, più o meno sottili, più o meno dritti, più o meno curvi, più o meno storti. Di conseguenza, il fumatore del sigaro toscano prova, ogni volta che fuma, sempre una sensazione lievemente o anche, a volte, intensamente diversa.

Se la vecchiaia consiste, talvolta, nel timore della vecchiaia, il provincialismo consiste quasi sempre nel timore del provincialismo.

Per diminuire le nostre colpe passate, cerchiamo sempre di ricordarle come fatali. Ci persuadiamo di aver lottato per scrupolo, per generosità, per egoismo, mentre sapevamo fin dal primo momento che non c’era niente da fare, la tentazione troppo forte, la partita persa.

Un bicchiere d’acqua quando il nostro corpo ha sete è come un bicchiere di vino quando ha sete la nostra anima. Ecco perché un pasto senza vino mi fa pensare a un bambino incapace di ridere.

Ho sempre rispettato troppo e il vino e il dolore per non evitare di mescolarli. Se ho avuto dell’indulgenza verso l’alcool, è sempre stato per il motivo opposto: sentendomi felice, per esserlo ancora di più; per abbandonarmi tutto alla felicità.

La nobiltà del vino è proprio questa: che non è mai un oggetto staccato e astratto, che possa essere giudicato bevendo un bicchiere, o due o tre, di una bottiglia che viene da un luogo dove non siamo mai stati.

Il vino non sarebbe così umano se non fosse a sua volta mortale

Nel vino, come nella cucina, può succedere che il parere di una persona sola sia più giusto del parere di milioni di persone.

Ogni passione veramente profonda contiene in sé il suo Contrario.

Non si capisce bene una poesia la prima volta con intorno il frastuono e il vocìo di una caffeteria di studenti: ci vuole silenzio e concentrazione.

Ho amato l’America fino dal primo giorno per la libertà che vi si gode e che si identifica essenzialmente con due fenomeni: la straordinaria eguaglianza di diritti per ciascun cittadino, e la straordinaria abbondanza, per ciascun cittadino, di topografico, fisico, animalesco spazio vitale.

L’America non è soltanto una parte del mondo. L’America è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America.

La fede in Dio si può averla senza saperlo. Anzi, forse, la si ha solo quando si crede di non averla.

L’amore indissolubile che a volte ci lega con una creatura sola implica la perdita della nostra libertà, e noi non ci sentiamo mai tanto innamorati di quella creatura come quando tentiamo, sapendo che è soltanto un tentativo, di liberarci di lei. In questo modo i tradimenti passeggeri sono dunque una forma infernale di fedeltà.

Siamo forti contro le tentazioni forti. Contro le deboli, deboli.

Non vale la pena fare gli eroi delle occasioncelle perdute.

Il rimorso non è mai per azioni che abbiamo commesso o che non abbiamo commesso; non è per ciò che facciamo; bensì per ciò che fummo, siamo e fatalmente saremo: non riguarda soltanto il passato, ma anche il futuro.

Il viaggio è un sentimento, non soltanto un fatto.

C’è il pettegolezzo, di cui si dice tanto male; ma che in fondo è la base della carità, dell’interesse per il prossimo.

Tutto il mondo soffre di avere perduto la religione. E quasi tutta la poesia di oggi non è, in un modo o nell’altro, che il rimpianto di una religione perduta.

Non v’è, si può dire, attività umana, dalla più spirituale alla più materiale, non v’è arte, meccanismo, scienza, esercizio che sia escluso dal cinematografo.

Conviene tener presente una cosa essenziale: il cinematografo talvolta è arte, ma è sempre industria.

L’inquadratura è per il regista quello che è la grammatica per lo scrittore, il solfeggio per il musico, il disegno per il pittore.

Non v’è ambiente più duro, scanzonato, affaristico, di quello cinematografico. Non ci sono donne meno sentimentali, meno sensibili (parlo di sensibilità umana, non di sensibilità artistica) delle dive.

Ogni epoca ha i suoi gusti, le sue inclinazioni e manie e malattie predominanti. In Italia, l’epoca umbertina amò l’opera di un amore violento, cieco, ridicolo, patologico. Il dopoguerra soffre, tra l’altro, di due nuove malattie: il tifo sportivo e la mania del cinematografo.

Perché la legge, nel suo sforzo, nobilissimo ma in estrema analisi vano, di essere uguale per tutti, finisce, a volte, col proteggere chi, applicando scrupolosamente la lettera, più nel profondo violi lo spirito.”

Ogni volta che torno a Genova, mi stupisco e mi chiedo, scherzosamente, che bisogno possa aver sentito il Piemonte di conquistare l’Italia mentre aveva già la Liguria. Tutto ciò che di italiano manca a Torino, ce l’ha, e ce l’aveva, Genova.