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Ludovico Ariosto (Reggio nell’Emilia, 8 settembre 1474 – Ferrara, 6 luglio 1533) è autore dell’Orlando furioso, un poema cavalleresco in ottave, strutturato su 46 canti, per un totale di 38.736 versi nell’edizione definitiva del 1532.
La lingua definitiva dell’Orlando furioso è ben diversa da quella delle due edizioni precedenti (1516 e 1521). In principio il registro linguistico, ricco di termini toscani, padani e latineggianti, teneva conto delle espressività popolari, essendo più orientato a un pubblico ferrarese o padano. Fu solo dopo che Ariosto si rese conto della portata di capolavoro dell’opera e mirò a creare un modello linguistico italiano nazionale.
Presento una raccolta delle frasi e i versi più celebri di Ludovico Ariosto. Tra i temi correlati si veda Le frasi più belle e famose di William Shakespeare e Le frasi e i versi più celebri di Virgilio.
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Le frasi e i versi più celebri di Ludovico Ariosto
Piccola è questa casa, ma sufficiente per me, nessuno vi ha ragioni sopra, è pulita, infine è stata fatta con i miei denari.
(Iscrizione nella casa di Ludovico Ariosto a Mirasole)
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L’Orlando Furioso (1532)
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,
e l’invisibil fa vedere Amore.
(Canto I)
Se, come il viso, si mostrasse il core.
(Canto XIX)
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
(Incipit Orlando furioso)
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima.
(Incipit Orlando furioso)
Ecco il giudicio uman come spesso erra!
(Canto I)
Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
(Canto I)
Di più direi; ma di men dir bisogna.
(Canto XXVI)
Fui presa del suo amore; e non m’avidi,
ch’io mi conobbi più non esser mia.
(Canto XIII)
L’animo è pronto, ma il poter è zoppo.
(Canto XXV)
Non conosce la pace e non l’estima
chi provato non ha la guerra prima.
(Canto XXXI)
Che ben fu il più crudele e il più di quanti
mai furo al mondo ingegni empi e maligni,
ch’imaginò sì abominosi ordigni.
(Canto XI)
Alcun non può saper da chi sia amato,
quando felice in su la ruota siede:
però c’ha i veri e i finti amici a lato,
che mostran tutti una medesma fede.
(Canto XIX)
Ben s’ode il ragionar, si vede il volto,
Ma dentro il petto mal giudicar possi.
(Canto V)
Se, come il viso, si mostrasse il core.
(Canto XIX)
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
(Astolfo sulla luna, Canto XXXIV)
Altri in amar il senno perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che più d’altro apprezze.
(Astolfo sulla luna, Canto XXXIV)
Ma come gli occhi a quel bel volto mise,
gliene venne pietade, e non l’uccise.
(Canto XVIII)
Che non conversiam sempre con gli amici
in questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d’invidia piena
(Canto IV)
Non vi vieto per questo (ch’avrei torto)
Che vi lasciate amar; che senza amante
Sareste come inculta vite in orto,
Che non ha palo ove s’appoggi o piante.
(Canto X)
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.
(Canto XXIII)
L’incarco de le corna è lo più lieve
ch’al mondo sia, se ben l’uom tanto infama:
lo vede quasi tutta l’altra gente;
e chi l’ha in capo, mai non se lo sente.
(Canto XLII)
Oh quante sono incantatrici, oh quanti incantator tra noi, che non si sanno!
(Canto VIII)
Dona e tolle ogn’altro ben Fortuna; sol in virtù non ha possanza alcuna.
(Canto III)
Ma sí secreto alcuno esser non puote,
ch’al lungo andar non sia chi ‘l vegga e note.
(Canto XXII)
Questo disir, ch’a tutti sta nel core,
de’ fatti altrui sempre cercar novella…
(Canto II)
L’amante, per aver quel che desia,
senza guardar che Dio tutto ode e vede,
aviluppa promesse e giuramenti,
che tutti spargon poi per l’aria i venti.
(Canto X)
Dirò insomma, ch’in lei dal capo al piede,
quant’esser può beltà, tutta si vede
(Canto XI)
Non è un sì bello in tante altre persone:
natura il fece, e poi roppe la stampa.
(Canto X)
Chi fugge a piedi in qua, chi colà sprona; nessun domanda se la strada è buona.
(Canto XXII)
La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avvicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
(Canto I)
Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
(Canto I)
Che l’uomo il suo destin fugge di raro.
(Canto XVIII)
Quale è di pazzia segno più espresso
Che, per altri voler, perder se stesso?
(Canto XXIV)
O d’ogni vizio fetida sentina,
dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa
ch’ora di questa gente, ora di quella
che già serva ti fu, sei fatta ancella?
(Canto XVII)
Come raccende il gusto il mutar esca,
così mi par che la mia istoria,
quanto or qua or là piú varïata sia,
meno a chi l’udirà noiosa fia.
(Canto XXIII)
La battaglia durò sino a quella ora,
che spiegando pel mondo oscuro velo,
tutte le belle cose discolora.
(Canto II)
Come si vede ch’all’astuto gatto
scherzar col topo alcuna volta aggrada;
e poi che quel piacer gli viene a noia,
dargli di morso, e al fin voler che muoia.
(Canto IV)
Ancor, per la paura che avuta hanno,
pallidi, muti et insensati vanno.
(Canto XIV)
Chi mette il piè su l’amorosa pania,
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
che non è in somma amor, se non insania,
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno più espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
(Canto XXIV)
A donna né bellezza,
Né nobiltà, né gran fortuna basta,
Sì che di vero onor monti in altezza,
Se per nome e per opre non è casta
(Canto XLIII)
Che sarebbe pensier non troppo accorto
perder duo vivi per salvare un morto.
(Canto XVIII)
Le donne son venute in eccellenza
di ciascun’arte ove hanno posto cura.
(Canto XX)
A donna non si fa maggior dispetto,
che quando o vecchia o brutta le vien detto.
(Canto XX)
Ma ‘l popolo facea, come i più fanno,
ch’ubbidiscon più a quei che più in odio hanno.
(Canto XXIII)
Bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.
(Versi finali dell’Orlando Furioso. Nota: l’anima è quella di Rodomonte ucciso da Ruggero)
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Satire (1517-1525)
Degli uomini son varii li appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.
Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.