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Nella sezione Scrittori di aforismi su Twitter l’articolo di oggi è dedicato a @ilcontenudo (Il Conte nudo). Nella breve nota biografica che mi ha inviato, l’autore scrive di sé: “Il Conte Nudo è un vecchio nobile, ormai decaduto. Di giorno finge amaro pentimento per i suoi vizi trascorsi, ma ogni notte li rimpiange. Ama raccontare della propria vita, pur nella consapevolezza di non averla mai capita. Irrimediabilmente privo di ogni saggezza senile, non distingue il significato tra libertà e solitudine”.
@ilcontenudo è iscritto a Twitter da meno di un anno (aprile 2014). “Twitter è una gigantesca arena virtuale, che oggi ti fa toro e domani torero. Non sai mai se ne uscirai vivo, insomma. E’ un’esperienza di condivisione straordinaria con persone spesso acute e dotate di un implacabile senso critico: insomma, un banco di prova eccellente” scrive l’autore a proposito di Twitter. E spiegando la scelta del suo nickname ‘ilcontenudo’ aggiunge: “L’idea è quella di veicolare i miei scritti attraverso l’immagine di un anziano Conte, la cui tanto declamata nudità intellettuale conferisce, a mio avviso, una discreta autorevolezza ai pensieri espressi”.
@ilcontenudo descrive le sue emozioni in modo estremamente poetico e infatti anche la scrittura, pur nel formato dei 140 caratteri di Twitter, ricalca la poesia con quel continuo andare a capo e quell’insistere sulla sonorità delle parole e la visività delle immagini. Che poi alcuni tweet sono delle vere e proprie poesie in 140 caratteri come questa “È carne nella carne, l’amarsi davvero. / Un rude appartenersi nelle stanze del tempo. / Come essere demoni pazzi. / Persi nei corridoi dell’amore” oppure questa “È una lenta risalita, la tua. /Di appigli rabbiosi e lucide vertigini./ Del vuoto, laggiù, hai deriso ogni eco./ Ora lo sai: la vetta sei tu”. E si veda anche la particolare sonorità ritmica di questo tweet: “Estinti gli istinti stantii di un istante, stavamo così. /Stesi dall’estasi, in una stasi estenuante./ Stoici nel nostro stentato stupirci”.
Vicini al modello poetico, i tweet di @contenudo hanno però anche molto dell’aforisma, con quel contenuto gnomico e sentenzioso che compare quasi sempre alla fine del tweet, spesso in forma paradossale, a capovolgere uno schema o un luogo comune con una inattesa capriola logica. Si veda ad esempio uno dei tweet più retwittati dell’autore “Bisogna pur metterlo, il punto./ Alla fine di una frase./ Alla fine di una storia./ Si chiama ortografia./ O, più comunemente, coraggio” dove la parola “coraggio” ribalta completamente quella che sembrava una riflessione sulla grammatica. O si veda “L’errore è quando sbagli una volta./ Due volte, è stupidità./ Oppure, amore” dove l’ultima frase, con un inatteso cortocircuito, mette sullo stesso piano amore e stupidità.
In questa meravigliosa oscillazione tra poesia e aforisma, vago e netto, logica e illogica, emozione e paradosso, ritmo e lucidità, la timeline di @ilcontenudo è fatta di microstorie (“storie mai lette, di parole abusive e baci sognati”) e microappunti che coinvolgono quasi sempre un lei e un lui, un me e un te , un tu e un noi (“Siamo stati sempre qui, tu ed io. A farci largo coi denti tra milioni di voci, tra milioni di odori.Tra milioni di loro, così simili a noi.”). E’ come se – da una prospettiva particolare – l’autore se ne stesse “in un angolo di mondo privo di rumore, a raccontarci sottovoce com’è stato esistere, prima di diventare finalmente Noi”. E questo “esistere” che l’autore descrive è fatto di sguardi e occhi sognanti (“due fessure perfette in cui morire”), di respiri (“Quella sera in spiaggia, io non guardavo le stelle. Ascoltavo, rapito, il tuo respiro. E lo stesso sciabordio del mare, mi suonava molesto”), di silenzi (“Il silenzio è una fuga verso un luogo che conosci solo tu. Il ripostiglio del mondo. Là dove anche il vento, quando è stanco, va a morire”), di corpi, di sogni (“Eravamo ad una festa, stanotte. Ballavamo. E lei era bellissima. Bella come un sogno che non riesce a darmi tregua. Anche mentre dormo”), di ricordi (“Io resto lì. Ai bordi del prato vicino alla scuola. In mano ho 100 fiori, raccolti per mamma. Ed il viso ancora sporco. Di gioco e di amore”), di presenze e di addii, di attimi pieni di un puro sentirsi. ma anche di incastri imperfetti.
In questo contrappunto di vibrazioni ed emozioni, dove protagonista è sempre l’amore, (“carne nella carne”, “rude appartenersi alle stanze del tempo”, “demone pazzo” perso nei corridoi della vita) la vita può essere una “strada fatata” che pare esistere solo per noi, e “ogni sosta è un bacio, una scusa perfetta per non arrivare mai”. Ma la vita può anche essere un gioco al massacro (“Si finisce sempre col diventare, più o meno volutamente, il ‘devoandare’ di qualcun altro. Perché il viversi è un viaggio al massacro”) e le notti “deserti senza sonno, senza voce e senza Dio”. Del resto come scrive @ilcontenudo in un suo tweet “Dentro di me vivono un angelo che sorride, un diavolo che deride e una puttana impertinente che fa il filo sia all’angelo che al demone”.
Presento una scelta dei migliori tweet di @ilcontenudo
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@ilcontenudo, Tweet scelti
Bisogna pur metterlo, il punto.
Alla fine di una frase.
Alla fine di una storia.
Si chiama ortografia.
O, più comunemente, coraggio.
Dentro ad un abbraccio puoi fare di tutto.
Sorridere e piangere.
Rinascere e morire.
Oppure fermarti a tremarci dentro.
Come fosse l’ultimo.
Mai dovunque.
Mai comunque.
Mai a chiunque.
Che donarsi è una cosa seria.
L’errore è quando sbagli una volta.
Due volte, è stupidità.
Oppure, amore.
Un vero sognatore lo riconosci dalla capacità di raccontarti i suoi incubi.
Che a raccontare i bei sogni, son buoni tutti.
Sarai sempre un po’ mia.
Malgrado il mondo.
Malgrado il tempo.
Malgrado me.
“Non spero in un anno migliore.
Spero di diventarlo io, migliore.
Nient’altro”.
#Buon2015
Si è sempre vittime della disattenzione di qualcun altro.
Ma, ancor più, della nostra.
Non sono mai le persone a scegliere di incontrarsi.
Sono le anime a cercarsi.
Fino a trovarsi.
E divenire una sola cosa.
Indissolubilmente.
Ci sono persone che, te ne accorgi subito, sembrano venire da molto lontano.
Hanno le scarpe sporche di fango e gli occhi gonfi di passato.
Dentro di me vivono un angelo che sorride, un diavolo che deride e una puttana impertinente che fa il filo sia all’angelo che al demone.
Era troppo presto per iniziare, e decidemmo di aspettare un po’.
Così passò una vita intera.
Senza che fosse mai troppo tardi, per smettere.
Ci si vede in cima.
Che risalire, appartiene ai migliori.
Tocco il fondo.
Ma non è così male.
Si è più liberi, quaggiù.
Liberi da pretese, difese e condizioni.
Liberi di risalire.
Liberi di restare.
I miei occhi, per guardare il mondo.
I tuoi, per guardarmi dentro.
A volte, devi arrivare fino alla fine per renderti conto che, in fondo, era soltanto una questione di principio.
Magari ci rivedremo altrove.
Dentro a baci deludenti.
Dentro a corpi senza odore.
Dentro a vite mezze vuote in cui fa eco il ricordo di noi.
Il silenzio è una fuga verso un luogo che conosci solo tu.
Il ripostiglio del mondo.
Là dove anche il vento, quando è stanco, va a morire.
Ora lo sai, sono fatto così.
Invado chi amo fino a renderlo vero.
E ad essere veri, viene fuori di tutto.
Persino quel peggio che amo di te.
Saprò esserci ancora.
Tenerti per mano.
Farti da spalla mentre bari col tempo.
Raccontarti quanto servano al cuore, certe analgesiche bugie
Certi tweet, a scriverli è un attimo.
È a viverli, che occorre una vita.
Arriva il giorno in cui inizi a chiederti se le corde dell’altalena siano poi così sicure.
Ed in un attimo, smetti di essere un bambino.
Una voce, quando serve, dovrebbe anche saper essere gesto.
Altrimenti perde ogni virtù.
E si trasforma in un suono.
Un suono, come tanti.
Dovremmo imparare dalla Luna.
Mostrare sempre la nostra faccia migliore.
E laddove ciò non sia possibile, privilegiare l’eclissi.
Non si erano mai persi un solo bacio, quei due.
Anche il sesso, tra loro, era tutto un pretesto.
In realtà, volevano solo leccarsi il cuore.
Guardarmi ora.
Mentre distruggo le parole di un tempo, fino a farne coriandoli senza colore.
E scusa il carnevale, troppo fuori stagione.
Ci sono notti che non ti perdonano il non aver saputo viverti il giorno.
È carne nella carne, l’amarsi davvero.
Un rude appartenersi nelle stanze del tempo.
Come essere demoni pazzi.
Persi nei corridoi dell’amore.
Saper scrivere è un dono.
Rileggersi, una maledizione.
La vera solitudine è quando hai finito ogni scorta possibile.
Di vino, sigarette e ricordi.
Finisce sempre così.
A preoccuparsi di tutto perché si ha paura del niente.
Forse, torneremo a rubare i fiori più belli da regalare alla donna che amiamo.
Forse, torneremo ad essere migliori.
C’erano, tra noi, attimi pieni di un puro sentirsi, di ieri mal vissuti e di domani impellenti.
Erano attimi, quelli, da passarci la vita.
Ce ne staremo lì, in un angolo di mondo privo di rumore, a raccontarci sottovoce com’è stato esistere, prima di diventare finalmente Noi.
Si erano incontrati così, lei e lui.
Sbagliando ogni cosa.
Luogo, tempo e cuore.
Solo le spalle parevano essere giuste, una volta girate.
Si guardavano, lei e lui, con l’Agosto nel cuore.
Mentre fuori, a due passi dal caos, mancava un mese a Natale.
Non ci saremo, e verrà ancora l’estate.
Ci perderemo, poi un altro inverno.
Sarai più tu.
Sarò più io.
Senza aver mai imparato a essere noi.
In quell’attimo, come mai prima né dopo, c’eravamo noi due.
A raccontarci sottovoce una storia mai letta, di parole abusive e baci sognati.
Provo a tornare.
Dove il mio esserci ha un senso.
Prima che il vento, stasera, si prenda gioco di me.
A volte, se serve, una guerra te la inventi.
Perché non è più possibile fare l’amore.
Camminavamo piano, su una strada fatata che pareva esistere solo per noi.
Ogni sosta era un bacio.
Una scusa perfetta.
Per non arrivare mai.
Anche la pioggia, se resto a guardarla, non è poi tutta uguale.
Certe gocce, ad annusarle, sanno ancora di lei.
Natale è dei bimbi.
Noi, adulti da una vita, possiamo solo aspettare la sera e, nel buio, far loro a pezzi le bambole.
In cerca del cuore.
A guardarlo, quel vecchio sembrava un giornale dimenticato su una panchina qualunque.
I suoi capelli, pagine al vento.
Le lacrime, pioggia.
Ci siamo riempiti la vita di piccole, perdonabili incoerenze.
Come certi “addiopersempre” che duravano mezz’ora.
Cosa vuoi che sappia io, così poco incline alle certezze in offerta.
Persino il mio stesso tornare a casa stasera, dipende dal vento.
Si resta sempre un pó bambini, come ai bei tempi della scuola.
Ed il problema è ancora quello: giustificare le assenze.
Passeggiava, l’uomo.
Da solo, come tutte le sere.
Le mani nelle tasche, a frugare tra i pretesti taglienti di un giorno finito in frantumi.
A tenerli insieme, era il reciproco bisogno di affondare le radici in un cuore di cui potersi nutrire.
Quel coso, l’amore, venne dopo.
Così, malgrado oggi piova senza sosta, io mi fermo a guardarti.
Ed è quasi come stendermi al sole.
Quella sera in spiaggia, io non guardavo le stelle.
Ascoltavo, rapito, il tuo respiro.
E lo stesso sciabordio del mare, mi suonava molesto.
Resisto a tutto.
All’emicrania, alla voglia di zucchero nel caffè ed al bisogno di sentirti.
Si può essere eroi, in un venerdì qualunque.
Estinti gli istinti stantii di un istante, stavamo così.
Stesi dall’estasi, in una stasi estenuante.
Stoici nel nostro stentato stupirci.
L’emporio dei sogni non pratica mai i saldi di fine stagione.
Poi, messi alle corde da una manifesta inattitudine al pentimento, ci siamo inventati l’alibi perfetto.
Quel caro, vecchio “a fin di bene”.
Ad avere un odore, sono solo i bei ricordi: li annusi nel tempo.
Quelli brutti, invece, sanno di niente.
E forse, è anche giusto così.
Disteso, pancia all’aria, a cercare un po’ di te nelle facce delle nuvole che, moleste, si fanno nere.
Fino a piovere.
Fino a ridere di me.
È ancora troppo presto per coltivare rimpianti.
Al momento, sono molto più occupato a seminare rimorsi.
I rapporti a distanza non funzionano mai.
Soprattutto se si vive insieme.
Io scendo alla prossima.
E sarà quasi come giungere a casa.
A pochi isolati da quel che ami di me.
Il posto migliore, per provare a dormire.
Sere che scivolano via, così.
Come corda bagnata.
Tra mani troppo grandi, dita serpenti e pelle così spessa che non brucia quasi più.
Certo, puoi anche provarci ad andartene via.
Ma dovrai portarti dietro tutto ciò che ti appartiene.
Iniziando da me.
Nei giorni che vivi, lascia porte e finestre ben aperte, ad aerare l’ambiente.
Che ogni ieri ha un suo odore.
Ed un naso attento, lo sa.
Ma io, se fossi Dio, sarei un vecchio che non ride mai.
La notte, sempre in giro per mille mondi, a parlar solo e bere per dimenticare.
Voi.
Non piove.
Sono solo nuvole, quelle.
Che, pur di far colpo su un sole distratto, hanno imparato a piangersi addosso.
Non passa mai niente.
Nemmeno chi ti manca.
Nemmeno chi ti ha deluso.
Il vizio di amarsi non passa mai.
Se passa, forse stai solo morendo.
Sarebbe anche un bel mondo, il mio, se solo imparassi ad esserne il custode.
Piuttosto che viverlo da ospite, all’alba del terzo giorno.
Eravamo ad una festa, stanotte.
Ballavamo. E lei era bellissima.
Bella come un sogno che non riesce a darmi tregua.
Anche mentre dormo.
Siamo stati sempre qui, tu ed io.
A farci largo coi denti tra milioni di voci, tra milioni di odori.
Tra milioni di loro, così simili a noi.
Che la notte, di notte, é talmente puttana, che io ogni notte ho vent’anni di più.
Si finisce sempre col seminare ovunque dei ricordi.
Pur coscienti che, nel tempo, da essi fioriranno inevitabilmente i petali del rimpianto.
Degli istanti perfetti.
Dei tramonti naïf.
Dei miei “tornodomani”.
Dei tuoi “restaconme”.
Fino all’ultimo bacio.
Sai di sesso e caffè.
Del passato, il proprietario.
Del futuro, un inquilino.
È così strano abitarti nel cuore.
I balconi spalancati a dare luce al delirio del mio incerto viverti dentro.
Del mio volere credere, in te.
Si finisce sempre col diventare, più o meno volutamente, il “devoandare” di qualcun altro.
Perché il viversi è un viaggio al massacro.
Un bacio, per essere perfetto, deve peccare di presunzione.
Fino a credersi il primo.
Difficilmente riesci a trovare ciò che hai sempre cercato.
Fino a convincerti che non esiste nemmeno.
Ed è così che smetti di esistere tu.
Come ogni sera, l’uomo indossò le sue scarpe migliori.
Poi, chiusa a chiave la vita, riprese l’abituale cammino.
Sul sentiero dei colpevoli.
In una notte d’Agosto così bella e stellata, credetemi, ho visto persone chiudere gli occhi.
E sparirci dentro, in un attimo.
In lei, tra capezzoli e ombelico, c’era un sentiero di carne senza fine che ho percorso al buio, per anni.
Ogni volta, perdendomi un po’.
La colpa di tutto, puoi vederla.
Sta li.
Nel nostro banale voler esserci ancora.
Noi, che siamo sassi e null’altro.
Pronti a fingerci rocce.
Noi, che abbiamo adoperato ogni lecito mezzo per sentirci migliori.
Persino l’amore.
Di notte, l’uomo, nel suo deserto senza sonno, pregava.
Senza voce e senza dio.
Ed era quello, a suo dire, il solo modo per tornare bambino.
Avrò avuto vent’anni.
Quella sera la radio suonava gli Smiths.
Lei, nuda senza sesso, stonava su It’s Over.
Io, certe notti, sono ancora li.
A volte, non è nemmeno odio.
È più voglia di tenersi a poca distanza dall’ultima uscita di sicurezza fruibile.
La notte è delle puttane, dei pokeristi, degli ubriachi, degli insonni e dei portieri d’albergo.
La notte è di chi non sa morire.
#notte
Come tasselli, in natura dissimili.
Con il cuore, legno grezzo, levigato quel poco che basta a simulare, giocoforza, l’incastro imperfetto.
Puoi braccare i pensieri.
Fare il verso ai fantasmi.
Puoi vestire il silenzio.
E dipingere i sensi.
Puoi, scrivendo, fare a meno di te.
Un tweet perfetto, lo scrivi con la pancia.
Poi, il cuore fa il resto.
Certi pensieri, a diventare parole, volano in aria.
E l’aria si sa, non ha peso.
Dio, in fondo, siamo noi.
Ma ci piace troppo delegare.
Restami addosso, mentre provo a incastrare neri aggettivi dentro al nostro imperfetto.
Prima di legarci per sempre, ai sostantivi dell’odio.
La cosa più stupefacente al mondo non è il nostro modo di nascere, ma la nostra abilità nel saper rinascere.
Tutte le volte che serve.
Quindi si passa il tempo così.
A raccontarsi al meglio.
A vendersi in saldo.
A rifilare i se fossi.
Eccolo, il tempo.
È quell’albero stanco che sorregge, rugoso, i suoi rami pesanti.
Poi, nelle notti cielo terso, sorride fiero alle stelle.
Vivo di poche dissonanti armonie.
Battiti irosi del tempo in levare.
Accordi in minore.
Sincopi irregolari.
Poi le parole: l’assolo di me.
I sogni migliori sono quelli che al mattino non riesci a ricordare, ma il cui sapore ti segue fino al bar, diluendosi dentro al primo caffè.
Strada è un macellaio che chiude bottega sotto gli occhi di un’anziana puttana che bestemmia in rumeno.
Stanchi, entrambi, di vendere carne.
– ti amo
– anch’io
Poi avrebbero aspettato l’alba abbracciati, prima che quella notte stupenda lì ingoiasse per sempre.
L’abitudine è sempre la stessa: occultare le nostre debolezze.
Mascherarle e bluffare.
Prima che l’altro ci preceda, nel farci a pezzi.
Basta una frase, una parola, o anche solo il magico rumore delle labbra che si schiudono.
Basta poco per credere in qualcuno che non sia io.
Cosi, estinti gli eroi, abbiamo imparato l’arte serale dell’attesa in poltrona.
Certi che, tanto, ci penserà il tempo a correggere il mondo.
Ho scalato pregiudizi, navigato cattive abitudini, varcato sogni bastardi e planato su amori pericolanti.
Ma volevo solo calpestare la noia.
Per stare sveglio alle 3 del mattino devi essere certamente un fornaio, un metronotte o una prostituta.
Altrimenti sei soltanto un casino.
Che a frugarsi nell’anima, qualcosa di buono si trova sempre.
Siamo noi l’amico immaginario di noi stessi.
Dovremmo solo trovare il tempo (ed il coraggio) di frequentarlo di più.
Preferivo le stelle delle mie notti bambine.
Quelle si che eran troppe a contarle una ad una.
Una luna, tre stelle.
Sette favole belle.
In un universo parallelo dove le notti senza buio durano anni e dove difendersi non serve, ci stiamo già dicendo “ti amo” come nessuno mai.
Dovresti esserci, provare a salvarmi.
Ostacolare ogni mia fuga in cantina.
Mutare voce, ogni notte, per fare paura.
Ai miei codardi silenzi.
È così strano abitarti nel cuore.
I balconi spalancati a dare luce al delirio del mio incerto viverti dentro.
Del mio volere credere, in te.