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Pedro Salinas (Madrid, 27 novembre 1891 – Boston, 4 dicembre 1951) è considerato uno dei più importanti poeti spagnoli del Novecento.
Nel 1933 Pedro Salinas pubblica “La voce a te dovuta”, una raccolta di settanta poesie dedicate alla stessa donna. “La voce a te dovuta” è considerato uno dei canzonieri amorosi più belli di tutti i tempi.
A proposito della poesia Pedro Salinas scrive: “La poesia è un’avventura verso l’assoluto. Si può arrivare più o meno vicino; si può fare più o meno strada, ecco tutto. Bisogna lasciar correre l’avventura, con tutta la bellezza del rischio, della probabilità, del gioco”.
Presento una raccolta delle frasi e poesie più belle di Pedro Salinas. Tra i temi correlati si veda Le più belle poesie di Federico García Lorca e Le più belle frasi e citazioni di Pablo Neruda.
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Le frasi e poesie più belle di Pedro Salinas
Non ho bisogno di tempo
per sapere come sei:
conoscersi è luce improvvisa.
Muore solo
un amore che smette di essere sognato.
Paura. Di te. Amarti
è il rischio più alto.
Non respingere i sogni perché sono sogni.
Tutti i sogni possono
essere realtà, se il sogno non finisce.
Al di là di te ti cerco.
Non nel tuo specchio
e nella tua scrittura,
nella tua anima nemmeno.
Di là, più oltre
Quale esilio, che assenza
essere dove si è!
Ho sempre avuto un desiderio d’amore così vivo che per esso sono divenuto poeta.
Ci incontreremo oltre le differenze
invincibili
oltre le sabbie le rocce gli anni
Ormai soli
nuotatori celesti
naufraghi del cielo.
Non voglio che ti allontani,
dolore, ultima forma
di amare.
La materia non pesa.
Il tuo corpo ed il mio,
uniti, non sentono mai
schiavitù, sentono ali.
Nessuna solitudine
mi ha fatto tanto male
come quella di due occhi
senza risposta.
Perdonami se ti cerco
così dentro di te.
Perdonami il dolore.
È che da te
voglio estrarre
il tuo migliore tu.
Quello che non vedesti
e che io vedo,
immerso nel tuo profondo,
preziosissimo.
Quando tu mi hai scelto
-fu l’amore che scelse-
sono emerso dal grande anonimato
di tutti, del nulla.
Fino ad allora
mai ero stato più alto
delle vette del mondo.
Non ero mai sceso sotto
le profondità massime
segnalate dalle carte di mare.
E la mia allegria era triste,
come quei piccoli orologi
senza polso cui cingersi
senza carica, fermi.
Ma quando mi hai detto “tu”
-a me, sì, a me, fra tutti-
volai più in alto
di stelle o coralli.
Io non posso darti di più
Non sono più di quello che sono.
Questo è il tuo destino: viverti.
Non devi fare nulla.
La tua opera sei tu, niente altro.
Sarai, amore,
un lungo addio che non finisce?
Vivere, dal principio, è separarsi.
Già fin dal primo incontro
con la luce, e le labbra,
il cuore percepisce quell’angoscia.
La realtà traveste
il sogno, e dice:
“Io sono il sole, i cieli, l’amore”.
Ma mai si dilegua, mai passa,
se fingiamo di credere che è più che un sogno.
E viviamo sognandola.
A te si giunge solo
attraverso di te.
Ti aspetto.
Io certo so dove sono,
la mia città, la strada, il nome
con cui tutti mi chiamano.
Ma non so dove sono stato con te.
Lì mi hai portato tu.
Come
potevo imparare il cammino
se non guardavo altro
che te,
se il cammino erano i tuoi passi,
e il suo termine
l’istante che tu ti fermasti?
Fatti abbracciare,
sciogli
quella felicità
così arruffata.
Ieri ti ho baciata sulle labbra.
Ti ho baciata sulle labbra. Intense, rosse.
Un bacio così corto
durato più di un lampo,
di un miracolo, più ancora.
Il tempo
dopo averti baciata
non valeva più a nulla
ormai, a nulla
era valso prima.
Nel bacio il suo inizio e la sua fine.
E dura questo bacio
più del silenzio, della luce.
Perché io non bacio ora
né una carne né una bocca
che scappa, che mi sfugge.
No.
Ti sto baciando più lontano.
E quando te ne andrai
ritornerò a quel sordo
mondo, indistinto,
del grammo, della goccia,
nell’acqua, nel peso.
Sarò uno dei tanti
quando non ti avrò più.
E perderò il mio nome,
i miei anni, i miei tratti,
tutto perduto in me, di me.
Ritornato all’ossario immenso
di quelli che non sono morti
e non hanno più nulla
da morire nella vita.
Ah come vorrei essere
un’allegria fra tutte,
una sola, l’allegria
di cui ti rallegri tu!
Un amore, un amore solo:
l’amore di cui tu ti innamoreresti.
Il modo tuo d’amare
è lasciare che io t’ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sanno offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole, abbracci
mi diranno che sei esistita
che mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Perché non debba mai scoprire
con domande o carezze
l’immensa solitudine
d’essere solo ad amarti.
Un’anima tu avevi
cosi chiara ed aperta
ch’io non potetti mai
nella tua anima entrare.
Andavo in cerca di aditi angusti,
d’alti e difficili passaggi…
Si andava alla tua anima
per aperti cammini.
Cominciano ad accendersi
le domande alla notte.
Ve ne sono distanti, quiete,
immense, come astri:
chiedono da lassù
sempre
la stessa cosa: come sei.
Altre, fugaci e minute,
vorrebbero sapere cose
lievi di te e precise:
misura
delle tue scarpe
nome
dell’angolo del mondo
dove potresti aspettarmi.
Tu non le puoi vedere,
ma il tuo sonno
è circondato tutto
dalle mie domande.
Domani. La parola
libera, vacante, senza peso,
si muoveva nell’aria,
così senz’anima e corpo,
senza colore né bacio,
che l’ho lasciata passare
al mio fianco, nel mio oggi.
Ma all’improvviso tu
hai detto: “io, domani…”.
E tutto si è animato
di carne e di bandiere.
Lo troveremo, sì
il nostro bacio.
Sarà su di un letto di nubi,
di cristalli o di braci?
Sarà
fra un minuto,
o domani,
o nel secolo futuro,
o proprio all’estrema soglia dei mai?
Non trattenerti mai
quando vorrai cercarmi.
Se vedi mura di acqua,
ampi fossati d’aria,
siepi di pietra o tempo,
guardie di voci, passa.
Ti aspetto con un essere
che non aspetta gli altri:
solo per te c’è spazio
là dove io ti aspetto.
Se mi chiamassi, sì,
se mi chiamassi!
Io lascerei tutto,
tutto io getterei:
i prezzi, i cataloghi,
l’azzurro dell’oceano sulle carte,
i giorni e le loro notti,
i telegrammi vecchi
e un amore.
Tu, che non sei il mio amore,
se mi chiamassi!
E ancora attendo la tua voce:
giù per i telescopi, da una stella
attraverso specchi e gallerie di anni bisestili
può venire. Non so da dove.
Dal prodigio, sempre.
Perché se tu mi chiami
sarà da un miracolo,
ignoto, senza vederlo.
Identici agli dei,
i tuoi occhi
possono negare o
donare ogni cosa.
La luce ha questo di male,
che non viene da te.
La luce viene dai soli,
dai fiumi, dall’oliva,
Io preferisco la tua oscurità.
Ciò che tu sei
mi distrae da ciò che dici.
Lanci parole veloci
inghirlandate di risa,
e mi inviti ad andare
dove mi vorranno condurre.
Non ti do retta, non le seguo:
sto guardando
le labbra dove sono nate.
Le senti come chiedono realtà
scarmigliate, feroci,
le ombre che forgiammo insieme
in questo immenso letto di distanze?
Per questo che gli amanti
si promettono i sempre
con l’anima e la bocca.
Di bacio in bacio vivono
girando, come il mare
si vive d’onda in onda,
e non teme di ripetersi.
Parliamo, da quando?
Chi ha cominciato? Non so.
I giorni, le mie domande;
oscure, ampie, vaghe
le tue risposte: le notti.
E insieme
formano il mondo, il tempo
per te e per me.
I cieli sono uguali
Azzurri, grigi, neri,
si ripetono sopra
l’arancio o la pietra:
guardarli ci avvicina.
Annullano le stelle,
tanto sono lontane
le distanze del mondo.
Ed io lo so che amarti è trasformare
i giorni e le ore, in pericoli, fiamme.
A tutto però si sorride per te.
Aspetto, passano i treni, il caso, gli sguardi.
Ma io non voglio i cieli nuovi.
Voglio stare dove sono già stato.
Con te, tornare. Quale immensa novità tornare ancora,
ripetere, mai uguale, quello stupore infinito!
Di’, ti ricordi dei sogni?
quand’erano proprio lì,
davanti?
Che distanza, in apparenza,
dagli occhi!
Sembravano alte nuvole,
fantasmi senza un appiglio,
orizzonti irraggiungibili.
Ora guardali, con me,
eccoli dietro di noi.
Se erano nuvole,
siamo su nuvole più alte.
E se orizzonti, lontani,
ora per vederli,
bisogna voltar la testa
perché li abbiamo passati.
Perché hai nome tu,
giorno, mercoledì?
Perché hai nome tu,
stagione, autunno?
Allegria, tristezza, sempre
perché avete nome: amore?
Se tu non avessi nome
io non saprei che cos’era
né come, né quando. Niente.
Sa il mare come si chiama,
di essere il mare? Sanno i venti
i loro nomi, del Sud
e del Nord, oltre
che di essere puro soffio?
Non ho bisogno di tempo
per sapere come sei:
conoscersi è luce improvvisa.
Chi ti potrà conoscere
là dove taci, o nelle
parole con cui taci?
Chi ti cerchi nella vita
che stai vivendo, non sa
di te che allusioni,
pretesti in cui ti nascondi.
E seguirti all’indietro
in ciò che hai fatto, prima,
sommare azione a sorriso,
anni a nomi, sarà
come perderti. Io no.
Ti ho conosciuto nella tempesta.
Ti ho conosciuto, improvvisa,
in quello squarcio brutale
di tenebra e luce,
dove si rivela il fondo
che sfugge al giorno e alla notte.
Ti ho visto, mi hai visto, ed ora,
nuda ormai dell’equivoco,
della storia, del passato,
tu, amazzone sulla folgore,
palpitante di recente
ed inatteso arrivo,
sei così anticamente mia,
da tanto tempo ti conosco,
che nel tuo amore chiudo gli occhi,
e procedo senza errare,
alla cieca, senza chiedere nulla
a quella luce lenta e sicura
con cui si riconoscono lettere
e forme e si fanno conti
e si crede di vedere
chi tu sia, o mia invisibile.