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Federico Fellini (Rimini, 20 gennaio 1920 – Roma, 31 ottobre 1993) è considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema. Già vincitore di quattro premi Oscar al miglior film straniero, per la sua attività da cineasta gli è stato conferito nel 1993 l’Oscar alla carriera. Vincitore due volte del Festival di Mosca (1963 e 1987), ha inoltre ricevuto la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1960 e il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985.
Presento una raccolta delle più belle frasi di Federico Fellini. Tra i temi correlati si veda Frasi, citazioni e aforismi sul cinema, Frasi, citazioni, battute e aforismi di Ennio Flaiano, Le frasi più belle di Dario Fo e Le frasi più belle di Charlie Chaplin.
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Le più belle frasi di Federico Fellini
Il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio.
L’unico vero realista è il visionario.
Non c’è fine. Non c’è inizio. C’è solo l’infinita passione per la vita.
– Che ricordo ha del primo incontro con Giulietta?
– Nessuno; io sono nato quel giorno.
Cosa avrei potuto fare se il cinema non fosse esistito? Non lo so davvero. Scrivere, no. Scrivere è una disciplina ascetica, lo scrittore deve essere circondato di solitudine, di silenzio: a ciò non potrei abituarmi. Di sicuro mi sarei dedicato a qualcosa che avesse avuto a che fare con lo spettacolo o avrei tentato di inventare il cinematografo.
Il cinema mi piace perché col cinema ti esprimi mentre vivi, racconti il viaggio mentre lo fai. Sono fortunatissimo, anche in questo: sono stato portato per mano a scegliere un mestiere che è l’unico mestiere per me, l’unico che mi permetta di realizzarmi nella forma più gioiosa, più immediata…
Sono autobiografico anche quando parlo di una sogliola
Felliniano… Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo.
Però ti dirò che sono assai timido. Sì, lo sono anche se non ci credi e sghignazzi, proprio timido. E ne sono contento perché non credo che possa esistere un artista senza la timidezza, la timidezza è una sorgente di ricchezza straordinaria: un artista è fatto di complessi.
Nulla si sa, tutto si immagina.
Passavo intere giornate a riempire quaderni, con la lingua tra i denti, pasticciando con pastelli e colori. Ho sempre invidiato i madonnari, non tanto perché vedevo che sul fazzoletto tenuto fermo da quattro pietre si ammucchiavano un sacco di soldi, ma perché potevano star seduti per terra, sporchi, senza rimproveri di nessuno, anzi, guardati con ammirazione. Anche adesso mi è più facile comunicare con i miei collaboratori disegnando scarabocchietti, esprimere i miei desideri fornendo piccoli identikit al truccatore o al costumista. Preferisco disegnare con foto, stoffa, pezzi di legno, già ambientando i set. Non perdere troppo tempo a scrivere. È un modo di fare che difficilmente viene accettato dai produttori, ma la mia tendenza è sempre più questa: prima inventare e poi vedere come si muove, farlo muovere-
È uno strano film, il più difficile che ho immaginato finora. La dolce vita andrebbe proiettato tutto insieme, in una sola enorme inquadratura. Non pretende di denunciare, né di tirare le somme, né di perorare l’una o l’altra causa. Mette il termometro a un mondo malato, che evidentemente ha la febbre. Ma se il mercurio segna quaranta gradi all’inizio del film, ne segna quaranta anche alla fine. Tutto è immutato. La dolce vita continua. I personaggi dell’affresco continuano a muoversi, a spogliarsi, ad azzannarsi, a ballare, a bere, come se aspettassero qualcosa. Che cosa aspettano? E chi lo sa? Un miracolo, forse. Oppure la guerra, i dischi volanti, i marziani.
Il cinema è come una vecchia puttana, come il circo e il varietà, e sa come dare molte forme di piacere.
Il cinema ha questo di salutare: anche se la voglia originaria si è dileguata, la realizzazione comporta una tale serie di problemi concreti che vai avanti a fare la cosa senza renderti conto di non ricordarla più. Il film lo giri senza sapere esattamente di che si tratta.
Il cinema non ha bisogno della grande idea, degli amori infiammati, degli sdegni: ti impone un solo obbligo quotidiano, quello di fare.
Il contrasto di chi si illude e parte in quarta contro i mulini a vento è sempre motivo di comicità.
Dopo la guerra dominava il sentimento della rinascita, della speranza: tutto il male era finito, si poteva ricominciare. Adesso, non so se quest’ombra che si allunga sull’Italia preveda una resurrezione. Dopo la guerra, si aveva il sentimento d’aver patito sciagure immeritate ma che facevano parte della Storia, che rendevano partecipi della Storia: non era certo un conforto, ma alle sofferenze dava un senso, un riscatto. Adesso questo manca del tutto: c’è soltanto il sentimento d’un buio in cui stiamo sprofondando.
Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l’ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io sono pronti a mandarselo giù in un boccone.
La più grande unità sociale del Paese è la famiglia. O due famiglie: quella regolare e quella irregolare.
In America continuano a rivolgermi inviti, a offrirmi somme da capogiro, ma perché dovrei andare fuori? Non ho bisogno di stimoli esteriori: il mio paese, le mie campagne, la gente che conosco è ancora sufficiente a stimolarmi, che ci vo a fare a New York o a Bangkok. Sono un pessimo viaggiatore, quando viaggio tutto diventa un caleidoscopio di colori e di suoni, non capisco nulla, torno sempre con un dettaglio inutile o straziante. E poi come ci si può abbandonare a un viaggio se devi dare notizie a chi è rimasto, e infine devi tornare indietro? Forse mi piacerebbe andare in Egitto, in India: ma ci penso stando seduto. Il mio posto è in questa Italia cattolica.
La vita è una combinazione di pasta e magia.
Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare.
Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita.
Sono i soldi che fanno venire delle idee.
Criticare non è distruggere, ma ricondurre un oggetto al giusto posto nel processo degli oggetti. Censurare è distruggere, o almeno opporsi al processo del reale.
Non mi piacerebbe sentir dire che ho tentato di stupire, che voglio fare il moralista, che sono troppo autobiografico, che ho cercato nuove vie. Non mi piacerebbe sentir dire che il film è pessimista, disperato, satirico, grottesco. E nemmeno che è troppo lungo. La dolce vita, per me, è un film che lascia in letizia, con una gran voglia di nuovi propositi. Un film che dà coraggio, nel senso di saper guardare con occhi nuovi la realtà e non lasciarsi ingannare da miti, superstizioni, ignoranza, bassa cultura, sentimento. Vorrei che dicessero: è un film leale.
8½ non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile.
Quarantatré anni non sono un’età precoce per tirare le somme della propria vita. Proprio per questo il film mi ha fatto un gran bene: mi sento come liberato, ora, con una gran voglia di lavorare. È un film testamentario, hai ragione, eppure non mi ha svuotato. Al contrario, mi ha arricchito: fosse per me, ricomincerei a farne un altro domattina. Davvero. E certo se mi dicono che bravo Fellini, che ingegno, mi fa un gran piacere: ma non sono i complimenti che cerco con Otto e mezzo. Vorrei… vorrei che questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso…