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Il conte Vittorio Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803) è considerato uno degli scrittori e poeti più importanti del Settecento.
Come la gran parte dei piemontesi dell’epoca, Vittorio Alfieri ebbe come madrelingua il piemontese. Giacché di nobili origini, apprese solo successivamente il francese e l’italiano, cioè il toscano classico.
Presento una raccolta delle frasi più celebri di Vittorio Alfieri. Tra i temi correlati si veda Frasi, citazioni e aforismi di Ugo Foscolo, Frasi, citazioni e aforismi di Alessandro Manzoni e Le poesie più belle e famose di Giacomo Leopardi.
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Le frasi più celebri di Vittorio Alfieri
Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli.
(Lettera responsiva a Ranieri de’ Calsabigi, 6 settembre 1783)
Sono duro, lo so, sono duro, ma parlo a gente
che ha l’anima tanto fiacca e sporca
che non c’è da stupirsi se a questa cricca
io piaccio appena all’uno per cento
(Da sonetto in lingua piemontese)
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Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso (postumo, 1806)
Un animo risoluto, ostinatissimo, ed indomito; un cuore ripieno ridondante di affetti di ogni specie tra’ quali predominavano con bizzarra mistura l’amore e tutte le sue furie, ed una profonda ferocissima rabbia ed abborrimento contra ogni qualsivoglia tirannide
Nella città d’Asti in Piemonte, il dí 17 di gennaio dell’anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti.
Oh rara, oh celeste dote davvero; chi sappia ragionare ad un tempo, e sentire!
Oh, quanto è sottile, e invisibile quasi la differenza che passa fra il seme delle nostre virtù e dei nostri vizi.
Il nascere della classe dei nobili, mi giovò appunto moltissimo per poter poi, senza la taccia di invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà di per sé sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi ed i vizi; ma nel tempo stesso mi giovò non poco la utile e sana influenza di essa, per non contaminare mai in nulla la nobiltà dell’arte ch’io professava. Il nascere agiato, mi fece libero e puro; né mi lasciò servire ad altri che al vero.
Onde io imparai sin da allora, che la vicendevole paura era quella che governava il mondo.
Allora imparai, che bisognava sempre parere di dare spontaneamente quello che non si potea impedire d’esserti tolto.
Bisogna veramente che l’uomo muoia, perché altri possa appurare, ed ei stesso, il di lui giusto valore.
Ed io sempre ho preferito originale anche tristo ad ottima copia.
Chi molto legge prima di comporre, ruba senza avvedersene e perde originalità, se ne avea.
Io vivevo in un continuo delirio d’amore, inesprimibile quanto incredibile da chi non l’abbia provato. Non ritrovavo mai pace se non andando sempre e senza saper dove, ma appena quetatomi per riposarmi o per tentare di dormire, tosto con grida e urli terribili ero costretto di rimbalzare in piedi e come forsennato mi dibattevo per la camera.
Perdei allora ogni freno, corsi a casa sua e dopo averla invettivata con tutte le più amare e spregianti espressioni, miste di amore, dolore e disperazione, ebbi la pur vile debolezza di ritornarvi e di amarla qualche ora dopo averle giurato che ella non mi rivedrebbe mai più, fremendo io e bestemmiando dell’esservi e non me ne potendo pure a niuno conto separare. Colto, finalmente un istante in cui potè più la vergogna e lo sdegno che l’amore, la lasciai.
Né mai si può veramente ben conoscere il pregio e l’utilità d’un amico verace, quanto nel dolore. Io credo, che senz’esso sarei facilmente impazzato.
Laonde io addolorato profondamente, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata e posta in discredito da questi semifilosofi.
Ma il libro dei libri per me, e che in quell’inverno mi fece veramente trascorrere, dell’ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare.
Che quanto ai giudizi degli uomini presenti, atteso lo stato in cui si trova l’arte critica in Italia, ripeto piangendo, che non v’è da sperare né ottenere per ora, né lode né biasimo. Che io non reputo lode, quella che non discerne, e motivando sé stessa inanima l’autore; né biasimo chiamo, quello che non t’insegna a far meglio.
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Del principe e delle lettere (1778-1786)
La forza governa il mondo, (pur troppo!) e non il sapere: perciò chi lo regge, può e suole essere ignorante.
Leggere, come io l’intendo, vuoi dire profondamente pensare; pensare, vuol dire starsi; e starsi, vuol dir sopportare.
Che le vere lettere fiorire non possono se non se all’aura di libertà.
La ragione e il vero sono quei tali conquistatori che per vincere e conquistare durevolmente nessuna arme devono adoperare che le semplici parole. Perciò le religioni diverse e la cieca obbedienza si sono sempre insegnate coll’armi, ma la sana filosofia e i moderati governi coi libri.
Vero è, che la penna in mano di un eccellente scrittore riesce per sé stessa un’arma assai più possente e terribile, e di assai più lungo effetto, che non lo possa mai essere nessuno scettro, né brando, nelle mani d’un principe.
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Della tirannide (1777-1790)
Tirannide è qualunque potere che abbia la facoltà di coercire la volontà del libero uomo; la tirannide finisce per identificarsi con ogni struttura statale e con ogni forza che si oppone al libero sviluppo dell’Io.
Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
Che base e molla della tirannide ella è la sola paura. E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì nella cagione che negli effetti; la paura dell’oppresso, e la paura dell’oppressore.
Il vivere senz’anima è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l’onore della specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso né voglio insegnare i precetti.
E non vi può essere maggior gloria, che di generosamente morire per non viver servo.
Il lusso… (che io definirei ‘l’immoderato amore ed uso degli agi superflui e pomposi’) corrompe in una nazione ugualmente tutti i ceti diversi.
Havvi una classe di gente che fa prova e vanto di essere da molte generazioni illustre, ancorché oziosa si rimanga ed inutile. Intitolasi nobiltà; e si dee, non meno che la classe dei sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei più feroci e permanenti sostegni della tirannide.
Le importantissime mutazioni non possono mai succedere fra gli uomini (come dianzi ho notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire all’essere liberi, più ancora, che dall’esser liberi al servire.
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Misogallo (postumo, 1814)
Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l’Italia: nessuna terra mi è Patria. L’arte mia son le Muse: la predominante passione, l’odio della tirannide; l’unico scopo d’ogni mio pensiero, parola, e scritto, il combatterla sempre, sotto qualunque o placido, o frenetico, o stupido aspetto ella si manifesti o si asconda.
(da Misogallo)
Schiavi or siamo, sì; ma schiavi almen frementi.
(da Misogallo)
Ahi fiacca Italia, d’indolenza ostello,
Cui niegan corpo i membri troppi e sparti,
Sorda e muta ti stai ritrosa al bello?
(da Misogallo)
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Varie
Ma non mi piacque il vil mio secol mai:
e dal pesante regal giogo oppresso,
sol nei deserti tacciono i miei guai.
(Da rime)
Uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
(da Rime)
Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,
l’adunca falce a me brandisci innante?
Vibrala, su: me non vedrai tremante
pregarti mai, che il gran colpo sospenda.
(da Rime)
Non perdo mai occasione d’imparare a morire; il più gran timor ch’io abbia della morte è di temerla.
(dai Giornali)
Spesso è da forte
Più che il morire il vivere.
(da Oreste)
… È ver: con lui felice
Non sono io mai: ma né senz’esso il sono
(da Oreste)
Meglio è morir, che trarre
Selvaggia vita in solitudin, dove
A niun sei caro, e di nessun ti cale.
(da Saul)
Seggio è di sangue e d’empietade il trono.
(da Saul)
E tu, che sei? re della terra sei:
ma, innanzi a Dio, chi re? Saul rientra
in te; non sei che coronata polve.
Io, per me nulla son; ma fulmin sono,
turbo, tempesta son io, se in me Dio scende
(da Saul)
O Morte. Morte
Cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda
Sempre sarai?
(da Mirra)
Basso affetto non cape in cor sublime
(da Agamennone)
Ove son leggi
tremar non dee chi leggi non infranse.
(da Virginia)
Far tacere un vecchio è cosa difficile. Far poi tacere un vecchio autore è cosa impossibile.
(prefazione alle Chiacchiere)
Io dico, e credo, e facile mi sarebbe il provare; che il libro è e deve essere la quintessenza del suo scrittore e che se non è tale, egli sarà cattivo, debole, volgare, di poca vita e di effetto nessuno.
(da Scritti politici e morali)
Al giovenile
bollor tutto par lieve.
(da La congiura de’ Pazzi)
Afferra la mia mano, caro amico, sto morendo.
(Vittorio Alfieri, Ultime parole prima di morire)