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E’ uscito il terzo volume della collana editoriale Aforisticamente che propone al lettore italiano una nuova edizione delle Voci di Antonio Porchia con la traduzione di Fabrizio Caramagna. Pur essendo considerato uno dei più grandi autori della letteratura ispano-americana e uno dei più importanti testimoni dell’aforistica contemporanea, Antonio Porchia è da tempo fuori catalogo in lingua italiana. Presento qui di seguito la mia introduzione al nuovo libro in vendita presso i distributori online (IBS, BOL, etc) e in tutte le librerie italiane:
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Antonio Porchia, Voci, introduzione di Fabrizio Caramagna
Non è peregrino affermare che una grande parte della storia della letteratura sia viziata da una mancanza di libertà. Una mancanza di libertà che consiste nella necessità da parte dell’autore di compiacere il lettore, creando una forma che sia comprensibile e piacevole per il medesimo, controllandone la lettura attraverso un sapiente dosaggio di tempi e modi e dialoghi. Nel tentativo di rendere l’esperienza del lettore ricca e coerente, la letteratura si è spesso mostrata e continua a mostrarsi come un genere “ossequioso”.
Chi scrive aforismi non ha mai cercato di compiacere il lettore, consapevole che il libro – lungi dall’essere un sogno o un avventura – è al contrario “un pericolo”, come ebbe anche a scrivere Cioran nel suo libro Squartamento. L’aforisma, attraverso il frammento, proprio perché è una parte che si stacca dal tutto, esprime una ribellione (alla realtà, al potere, ai luoghi comuni). L’aforisma non acconsente, ma al contrario diffida e dissente dalla realtà.
Questo spiega meglio di ogni altra cosa il motivo per cui l’aforisma è un genere di nicchia. Esso pone domande spesso scomode, ci costringe a pensare e guardare la realtà da un altro angolo visuale (la radice aphorizein si ricollega alla parola “orizzonte”, in qualche modo è il sottrarre un oggetto da un orizzonte per metterlo in un altro orizzonte) e non sempre il lettore ha voglia di compiere questa operazione (una particolare “ginnastica della mente” come la definisce un autore tedesco).
Come scrive molto bene l’aforista della repubblica ceca Jan Sobotka, “l’aforisma è una forma letteraria che fa risparmiare non solo carta, ma anche lettori”. Così scrittori di aforismi di grandissimo rilievo come Stanislaw Jerzy Lec (autore dei Pensieri Spettinati), Gomez de la Serna (l’inventore delle “greguerias”) e qui in Italia Leo Longanesi sono fuori catalogo e irreperibili in libreria. E’ un po’ come se i libri di Marcel Proust nella narrativa o Thomas Stearns Eliott nella poesia fossero introvabili. La cosa sorprende parecchio (in altri paesi con un diverso funzionamento editoriale gli autori sono in catalogo), ma è comunque coerente con il profilo di nicchia dell’aforisma.
Tra i tanti libri fuori catalogo qui in Italia c’è uno che merita davvero attenzione: le Voci di Antonio Porchia. Il poeta e critico letterario francese Roger Caillois (che fu anche scrittore di aforismi), durante un viaggio a Buonos Aires nel 1947, scoprì per caso le Voci, rimanendone assolutamente affascinato. Due anni più tardi, la traduzione in francese delle Voci fece guadagnare ad Antonio Porchia la fama internazionale e l’apprezzamento da parte dei surrealisti francesi come André Breton che ebbe a scrivere “Il pensiero più duttile di espressione spagnola è, per me, quello di Antonio Porchia”. Nel 1974 arriva la consacrazione definitiva da parte di Octavio Paz che in un articolo su ‘Plural’ parlerà di Porchia come “di una figura capitale della letteratura ispanoamericana. Capitale proprio per la sua marginalità”, mentre il romanziere americano Henry Miller incluse le Voci tra i cento libri di una biblioteca ideale. Alejandra Pizarnik in una lettera scritta ad Antonio Porchia afferma: “Il suo libro è il più solitario, il più profondamente solo che sia mai stato scritto al mondo, e ciò nonostante, rileggendolo a mezzanotte, mi sento accompagnata, o per meglio dire, protetta”. E Jorge Louis Borges scrive: “Le massime corrono il rischio di sembrare delle pure equazioni verbali. Noi siamo tentati di vederci l’opera dell’azzardo o di un arte combinatoria. Ma non nel caso di Novalis, La Rochefoucauld o Antonio Porchia. Presso di loro il lettore sente la presenza immediata di un uomo e del suo destino”.
Qualcuno definisce Antonio Porchia un mistico e un santo, altri un allievo di Lao Tzu e della filosofia orientale, altri un oracolo eracliteo, altri ancora un poeta, altri infine un filosofo molto vicino al pensiero di Wittgenstein (molti degli aforismi di Antonio Porchia si potrebbero infatti rapportare alla famosa affermazione di Wittgenstein: “I limiti del mio linguaggio rappresentano i limiti del mondo” e “Chi dice la verità, non dice quasi nulla”, vertendo sulla impossibilità di dire il dicibile, di rappresentare il rappresentabile). Antonio Porchia è tutto questo, ma anche altro. Già a partire dal titolo della raccolta, Voces, emerge la complessità dell’opera e la difficoltà di inquadrarla all’interno di un contesto univoco. Alla scrittrice Inès Malinow che, in una intervista del 1964, gli chiedeva perché il titolo “Voces”, Antonio Porchia risponde: “E’ difficile dirlo.Tutto si ascolta. E si ascolta di tutto” e poi continuando: “Uno è un’infinità di cose. La certezza chi ce l’ha? Il mio libro Voces è quasi una biografia, che è quasi di tutti”.
Spetta quindi al singolo lettore il compito di giudicare l’essenza di quest’opera che sembra scritta con la naturalezza con cui si respira, ma che in realtà nasconde una profonda meditazione sull’anima e sul mondo. Il primo lettore di Porchia, Roger Caillois, così scrisse a proposito dell’autore argentino: “Trovai l’opera di Porchia a Buenos Aires quando facevo le recensioni di libri che ci inviavano gli autori per commentarli sulla rivista ‘Sur’. Evidentemente ne ricevevamo talmente tanti che io li leggevo superficialmente per selezionare quelli che meritavano un commento. All’improvviso, vidi un libro molto umile, e non so quale energia fece in modo che io mi arrestassi e cominciassi ad esaminarlo. Non volevo crederci, e non potei più fermarmi prima di aver finito di leggerlo. Dopo, cercai di sapere chi ne era l’autore; nessuno lo conosceva, ma io lo incontrai. E dissi a Porchia: ‘Io scambierei per queste righe tutto quello che ho scritto’”.
In un contesto in cui, come ebbe a scrivere Stanislaw Jerzy Lec in un suo aforisma, “I lettori non amano che i pensieri che non fanno pensare”, quelli di Porchia sono al contrario pensieri che fanno pensare e ri-pensare il fine ultimo della nostra esistenza. Quasi componendo una piccola guida sull’anima umana e le sue numerose contraddizioni (di qui anche la particolare sensibilità dell’autore nell’indagare l’esistenza degli opposti, quella sfera dove ognuno degli elementi può rovesciarsi nel suo contrario, e questo, a sua volta, può ribaltarsi di nuovo: reale-irreale, possibilità-impossibilità, bene-male, principio- fine, sapere-innocenza, affermazione-negazione, guadagno-perdita, essere-non essere, povertà-ricchezza, libertà-rischio, verità-bugia, bellezza-bruttezza), gli aforismi di questo libro smontano l’insieme degli artifici linguistici e sociali del nostro mondo con interrogazioni continue, brevi frasi sospese nel silenzio a catturare frammenti di energia da cui ripartire.
Con questo volume, che è il terzo della collana Aforisticamente, la speranza è che torni l’attenzione su una delle più grandi “voci” del novecento, ingiustamente trascurata dal nostro panorama editoriale.
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Antonio Porchia, aforismi scelti tratti da “Voci” (traduzione Fabrizio Caramagna, Genesi, Collana Aforisticamente, Torino, 2013)
Chi ha visto vuotarsi tutto, quasi sa di cosa si riempie tutto.
Il male non lo fanno tutti, però accusa tutti.
Dio ha dato molto all’uomo; ma l’uomo vorrebbe ricevere qualcosa dall’uomo.
Troverai la distanza che ti separa da loro, unendoti a loro.
Il carnefice di anime non uccide cento anime; uccide un’anima sola, cento volte.
Sei quanto hanno bisogno di te, non quanto sei.
Quando morirò, non mi vedrò morire, per la prima volta.
Ciò che ti ho dato, lo so. Ciò che hai ricevuto, non lo so.
Sì, questo è il bene: perdonare il male. Non c’è altro bene.
Diamo un nome e dopo non sappiamo che nome dare al nome.
Chi ama sapendo perché ama, non ama.
Poiché mi preparo solo per ciò che dovrebbe accadermi, non mi trovo preparato per ciò che mi accade. Mai.
Sei tu che mi fai sentire ciò che sento, ma non sei tu ciò che sento. Ed è tutto come te: un farmi sentire ciò che sento. E che cosa è ciò che sento?
Se tu potessi uscire dalle tue pene e uscissi dalle tue pene, sapresti dove andare al di fuori dalle tue pene?
Credi che ti manchi tutto, e ti manca solo qualche fiore, perché tutto ti avanzi.
Se sei buono con questo, con quello, questo, quello, diranno che sei buono. Se sei buono con tutti, nessuno dirà che sei buono.
Se ami il sole che t’illumina, forse ami, e se ami l’insetto che ti morde, ami.
Vediamo attraverso qualcosa che ci illumina; attraverso qualcosa che non vediamo.
Che ho avuto tutto lo so, non per ciò che ho avuto. Lo so perché dopo non ho avuto più.
Autore che sembra avere le carte in regola per meritare una lettura attenta.
Grazie ancora, Fabrizio, per il tuo indefesso lavoro che stimola alla conoscenza di autori poco commerciali, altrimenti ignorati.
Sugli aforismi direi che siamo in una situazione piuttosto singolare: si parla (mi riferisco a un articolo di Carlo Bordoni ne La Lettura del Corriere della Sera, che riprende a sua volta un concetto di Edgar Morin) della scrittura breve (e di conseguenza del “pensiero breve”) come forma di scrittura vincente, totalizzante grazie alle tecnologie perché “più leggero”, che “esclude la fatica della riflessione logica”.
Una forma di scrittura che segna la fine della dialettica, la contrazione della conoscenza, la vincita della sintesi.
Eppure…l’aforisma, vessillo di una di queste forme del pensar breve, stenta ad affermarsi, facendo risparmiare appunto carta e lettori.
Il motivo principale credo sia dovuto al fatto che le varie brevi forme di comunicazione digitale (in particolare i social network, le chat, twitter, piuttosto che le news e in parte i blog e in generale la lettura sul web) avvengono per così dire – parafrasando la celebre distinzione di L.B. Alberti/Michelangelo – per “via di porre” ovvero aggiungono elementi sopra una base epistemologica imitatrice dell’oralità.
La forma aforistica viceversa procede per “via di levare” togliendo complessità al materiale cognitivo disponibile per condensare il senso logico-analitico e creativo del pensiero umano e aprire così nuovi “orizzonti”.
Differenza di metodo che determina differenza di stile ma anche e soprattutto di contenuto…a parità di lunghezza, di risultato.
Non si possono scrivere aforismi senza sofferenza e rinuncia, ma si possono scrivere banalità con la medesima quantità di parole.
E con molta, molta più facilità.
Qui, sullo stesso limitato terreno, quel pensiero breve o debole, in cui si può ravvisare la crisi attuale, culturale prima che economica – “paradigma di un modello cognitivo in cui la mente si adagia per comodità e pigrizia” – si inverte, quasi specularmente, in un modello paradigmatico difficile, spigoloso e con gran lavorio di subbie, bulini e ceselli.
Caro Giuseppe, concordo sulle tue riflessioni e in particolare sulla distinizione tra “il porre” e il “levare”.
Aggiungo ancora una cosa. Rispetto ad altre forme brevi (lo slogan, il tweet, la battuta, l’aneddoto, il frammento, etc), l’aforisma è una specie di “dissonanza cognitiva”. La dissonanza cognitiva, fenomeno ampiamente studiato dagli psicologi, può spiegare meglio di ogni altra cosa la diffidenza nei confronti dell’aforisma. La dissonanza cognitiva mostra come le persone, di fronte a fenomeni che risultano incompatibili con le proprie convinzioni molto profonde e radicate, preferiscono ignorare l’esistenza del fenomeno che confuta le proprie convinzioni piuttosto che rimettere in discussione quest’ultime.
L’aforisma è un genere che mette continuamente in discussione le nostre convinzioni e il lettore non ha voglia di fare questo tipo di operazione mentale.
Una bella recensione su Booksblog. http://www.booksblog.it/post/39557/aforismi-voci-di-antonio-porchia
Oh, molto interessanti; non vedo l’ora di procurarmi il libro! Mi sembra soprattutto molto interessante – rispetto quanto conosco di questo autore (poco, pochissimo: tanto che non ne dovrei parlare!) – l’accostamento alle formulazioni di Wittgenstein: d’altra parte viene da chiedersi quanto in Wittgenstein si possa ritenere puro gesto d’apertura e quanto, invece, se ne possa oggi ricondurre a una generale crisi del tempo da lui traversato: una crisi della rappresentazione che oltre la filosofia attraversa un po’ tutto lo sviluppo artistico del periodo – banalizzando così di certo la portata profonda del suo dettato filosofico, ma forse aiutando a chiarire qualcosa rispetto l’emergenza (in tutti i sensi!) di poetiche e realizzazioni estetiche che sembrano a volte camminarne al fianco… Non avendo letto altro, e sulla base dei pochi aforismi qui riportati, in relazione anche all’accenno di discorso già svolto in questi commenti, mi sembra interessante rilevare, superficialmente, come i pochi esempi riportati qui sopra si muovano anche attraverso l’eco testuale e la proliferazione dei sostantivi chiave di volta del singolo pensiero; come ad accentuare la propria matericità, o iconicità nel momento stesso in cui la si mette in dubbio e quasi la si revoca…
L’accostamento a Wittgenstein è stato fatto da alcuni studiosi di Porchia e mi sembra davvero calzante (nella scia della rappresentabilità/non rappresentabilità del mondo si muovono anche gli scrittori di aforismi Roger Munier – grande ammiratore e studioso di Antonio Porchia – e Franz Josef Czernin (che nei suoi aforismi cita più volte Wittgenstein ma non Porchia).
Sono d’accordo sulla “proliferazione di sostantivi chiave del pensiero”, il vocabolario di Antonio Porchia è ridotto ai minimi termini e me ne sono accorto traducendolo. In ogni caso è sempre molto difficile commentare la scrittura di Antonio Porchia che – al di là di possibili accostamenti a modelli retorici o autori della tradizione – è unica nel suo genere. Per cui consiglio davvero di leggere questo grandissimo autore.
Il consiglio di leggerlo, lo metterò in pratica il più presto possibile – oltre ricordarmi i nomi di Munier e Czernin.
In realtà, scrivendo di “proliferazione” ecc. avevo in mente un bel libro che ho da poco finito di leggere (anche se immagino che gli studi riguardo il settore di cui si occupa siano un po’ avanzati rispetto… visto che è datato) sul problema dell’identità della letteratura (e sulla letteratura dell’identità) latinoamericana, di Rosalba Campra; che proprio parlando di Buenos Aires – da qui l’aggancio – ne parla come della prima metropoli sudamericana e, in questo senso, tematizzata nella cultura già del tempo di Porchia come luogo che costruisce la propria “anima” sopra “un non-stile fatto di vuoti e proliferazioni” -> chiave di lettura che ho trovato applicata, in un articolo recuperato su un altro blog, alla produzione letteraria (in questo caso narrativa) di altri autori del luogo, per quanto – anche storicamente – diversi: Arlt, Ocampo, più recente (attuale) Aira.
ovviamente si tratta di un accostamento particolarmente gratuito; del resto mi sembrava interessante, in quanto mi pare che una caratteristica importante dell’aforisma (forse più di quello novecentesco rispetto le precedenti manifestazioni) sia una sorta di insistenza, di permanenza, fra l’ottuso e l’eroico all’interno dei problemi di raccordo tra estetica e logica che qualsiasi letteratura a un certo punto si scopre (così che mi sembra interessante sia una forma di scrittura che spesso si accompagna privatamente ad altre pubbliche, per periodi di tempo anche lunghi: quasi ne fosse un sedimento o un luogo di progettazione programmatica… per quanto possa valere il termine in letteratura!).
restano discorsi sui massimi sistemi; magari potrò avere qualcosa di più concreto da dire una volta letta la raccolta(!), intanto grazie della pazienza