Annunci
Ugo Foscolo (Zante, 6 febbraio 1778 – Turnham Green, 10 settembre 1827), è uno dei più importanti scrittori italiani del periodo a cavallo fra Settecento e Ottocento, nel quale si manifestano in Italia le correnti neoclassiche e romantiche, durante l’età napoleonica e la prima Restaurazione.
Presento una raccolta di frasi, citazioni e aforismi di Ugo Foscolo. Tra i temi correlati si veda Frasi, citazioni e aforismi di Alessandro Manzoni, Le poesie più belle e famose di Giacomo Leopardi e Le poesie più belle e famose di Giovanni Pascoli.
**
Frasi, citazioni e aforismi di Ugo Foscolo
L’odio è la catena più grave insieme e più abietta, con la quale l’uomo possa legarsi all’uomo.
E’ minor male non aver leggi, che violarle ogni giorno.
Preparami un migliaio di baci, ch’io verrò stasera a succhiarli dalla tua bocca celeste.
(Lettera ad Antonietta Fagnani Arese)
Sarei perduto s’io vivessi un solo momento senza di te. Confessalo, mia dolce amica: non ti accorgi che la mia passione va crescendo ogni più? che sarà di me se io continuo in questo stato di violenza e di ardore. Io mi credea il cuore logorato… e sento di non aver amato mai mai come ora.
(Lettera ad Antonietta Fagnani Arese)
Negli uomini pubblici l’amicizia è o interessata o falsa, e sempre corta.
Non son chi fui: perì di noi gran parte:
Questo che avanza è sol languore e pianto.
(Sonetti)
O Italiani, io vi esorto alle storie.
A rifar l’Italia bisogna disfare le sètte.
Si può bensì anche in mezzo alle ingiustizie sentirsi giusto, forte e libero; e la dignità dell’uomo si vendica più nel sopportare nobilmente, che nel lamentarsi e gridare invano.
Che Dante non amasse l’Italia, chi vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come qualunque altro l’ha mai veracemente amata, o mai l’amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna.
Una parte degli uomini opera senza pensare, l’altra pensa senza operare.
Il dolore in chi manca di pane è più rassegnato.
Le lingue, dove c’è nazione, sono patrimonio pubblico amministrato dagli eloquenti; e dove non è, si rimangono patrimonio di letterati; e gli autori di libri scrivono solo per autori di libri.
Quanto più ci ricorderemo delle persone perdute, e ci affliggeremo per esse, tanto più impareremo a imitare le lor buone qualità e ad amarle quantunque perdute.
Ogni lacrima insegna ai mortali una verità.
(dalla prefazione di Didimo Chierico a Laurence Sterne, Viaggio sentimentale)
Questo so bene: né per ripulse, né per favori, né per biasimi, né per lodi, mi rimuoverò mai dal mio proponimento.
Le sciocche e laide abitudini sono le corruzioni della nostra natura.
Quando per giovar debolmente ad altri si corre rischio di nuocere gravemente a se stessi, l’intricarsene è pazzia da bastone.
Il disprezzare non è da tutti.
L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità.
La noja proviene o da debolissima coscienza dell’esistenza nostra, per cui non ci sentiamo capaci di agire, o da coscienza eccessiva, per cui vediamo di non poter agire quanto vorremmo.
**
Alla sera, 1803
Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
**
A Zacinto, 1803
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
**
In morte del fratello Giovanni, 1803
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentil anni caduto.
La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
**
Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802-1803)
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia
(Incipit)
Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
(incipit)
Credo che il desiderio di sapere e ridire la storia de’ tempi andati sia figlio del nostro amor proprio che vorrebbe illudersi e prolungare la vita unendoci agli uomini ed alle cose che non sono più, e facendole, sto per dire, di nostra proprietà. Ama la immaginazione di spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo.
(23 ottobre, 1797)
Io non odio persona al mondo, ma vi sono cert’uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano.
(1º novembre, 1797)
Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente.
(1º novembre, 1797)
Non sono felice! mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore.
(20 novembre, 1797)
Gli uomini non potendo per sé stessi acquistare la propria e l’altrui stima, si studiano d’innalzarsi, paragonando que’ difetti che per ventura non hanno, a quelli che ha il loro vicino. Ma chi non si ubriaca perché naturalmente odia il vino, merita egli lode di sobrio?
(22 novembre, 1797)
Nella società si legge molto, non si medita, e si copia; parlando sempre, si svapora quella bile generosa che fa sentire, pensare, e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, si balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi.
(23 dicembre, 1797)
Io non lo so; ma, per me, temo che la Natura abbia costituito la nostra specie quasi minimo anello passivo dell’incomprensibile suo sistema, dotandone di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza creandoci nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur sempre affannati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che ci fa reputare l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al creato.
(19 gennajo, 1798)
La gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze, la patria, tutti fantasmi che hanno fino ad or recitato nella mia commedia, non fanno più per me. Calerò il sipario; e lascierò che gli altri mortali s’affannino per accrescere i piaceri e menomare i dolori d’una vita che ad ogni minuto s’accorcia, e che pure que’ meschini se la vorrebbero persuadere immortale.
(17 marzo, 1798)
Per questo l’uomo dabbene in mezzo a’ malvagi rovina sempre; e noi siam soliti ad associarci al più forte, a calpestare chi giace, e a giudicar dall’evento.
(17 aprile, 1798)
Coloro che non furono mai sventurati, non sono degni della loro felicità.
(17 aprile, 1798)
Una domenica intesi il parroco che sgridava i villani perché s’ubbriacavano. E non s’accorgeva come avvelenava a que’ meschini il conforto di addormentare nell’ebbrietà della sera le fatiche del giorno, di non sentire l’amarezza del loro pane bagnato di sudore e di lagrime, e di non pensare al rigore e alla fame che il venturo verno minaccia.
(8 maggio, 1798)
(13 maggio, 1798)
Illusioni! grida il filosofo. – Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele.
(15 maggio, 1798)
Ci fabbrichiamo la realtà a nostro modo; i nostri desideri si vanno moltiplicando con le nostre idee; sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoja; e le nostre passioni non sono alla stretta del conto che gli effetti delle nostre illusioni.
(25 maggio, 1798)
Sciagurati coloro che, per non essere scellerati, hanno bisogno della religione.
(Mezzanotte)
Spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da’ nostri medesimi concittadini, i quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl’Italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene – dimmi, Lorenzo, quale asilo ci resta?
(Firenze, 25 settembre, 1798)
Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre.
(Milano, 4 dicembre, 1798)
In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l’universalità che serve; e i molti che brigano. Noi non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que’ cani senza padrone a’ quali non toccano né tozzi né percosse.
(Milano, 4 dicembre, 1798)
Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi ogni anno di più, rimorsi, ed infamia
(Milano, 4 dicembre, 1798)
Ma, o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore, e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara.
(Milano, 4 dicembre, 1798)
Io non sarò giudice mai. In questa valle dove l’umana specie nasce, vive, muore, si riproduce, s’affanna, e poi torna a morire, senza saper come nè perché. Io non distinguo che fortunati e sfortunati.
(Nuovi tormenti e nuovi tormentati, 1799)
La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi.”
(Ventimiglia, 19 e 20 febbraro 1799)
Non è vile quell’uomo che è travolto dal corso irresistibile di una fiumana; bensì chi ha forze da salvarsi e non le adopra.
(Ventimiglia, 19 e 20 febbraro 1799)
O amico mio! ciascun individuo è nemico nato della Società, perché la Società è necessaria nemica degli individui.
(Ventimiglia, 19 e 20 febbraro 1799)
Noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve.
(Ventimiglia, 19 e 20 febbraro 1799)
I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? — Ov’è l’antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri.
(Ventimiglia, 19 e 20 febbraro 1799)
A che vivo? di che pro ti son io, io fuggitivo fra queste cavernose montagne? di che onore a me stesso, alla mia patria, a’ miei cari? V’ha egli diversità da queste solitudini alla tomba? La mia morte sarebbe per me la meta de’ guai, e per voi tutti la fine delle vostre ansietà sul mio stato. Invece di tante ambasce continue, io vi darei un solo dolore – tremendo, ma ultimo: e sareste certi della eterna mia pace. I mali non ricomprano la vita.
(Ventimiglia, 19 e 20 febbraro 1799)
he se nella vita è il dolore, in che più sperare? nel nulla; o in un’altra vita diversa sempre da questa. – Ho dunque deliberato; non odio disperatamente me stesso; non odio i viventi. Cerco da molto tempo la pace; e la ragione mi addita sempre la tomba. Quante volte sommerso nella meditazione delle mie sventure io cominciava a disperare di me! L’idea della morte dileguava la mia tristezza, ed io sorrideva per la speranza di non vivere più. – Sono tranquillo, tranquillo imperturbabilmente. Le illusioni sono svanite; i desiderj son morti: le speranze e i timori mi hanno lasciato libero l’intelletto.
(5 marzo, Ore 11 della sera)
Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace.
(5 marzo, Ore 11 della sera)
Che arroganza! credermi necessario! – gli anni miei sono nello incircoscritto spazio del tempo un attimo impercettibile.
(Mezzanotte)
Che è mai l’uomo? Il coraggio fu sempre dominatore dell’universo perché tutto è debolezza e paura.
(14 marzo, 1799)
Oh, come la beatitudine di sentirsi amato addolcisce ogni dolore
(14 marzo, 1799)
(20 marzo, 1799)
T’amai dunque, t’amai e t’amo ancora di un amore che non si può concepire che da me solo.
(25 marzo, 1799)
**
Dei sepolcri (1807)
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte.
A’ generosi
Giusta di gloria dispensiera è morte.
Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
Tutte cose l’obblio nella sua notte.
Celeste è questa
corrispondenza di amorosi sensi,
celeste dote è negli umani.
Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna.
E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
Irato a’ patrii Numi; errava muto
Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
Desîoso mirando; e poi che nullo
Vivente aspetto gli molcea la cura,
Qui posava l’austero; e avea sul volto
Il pallor della morte e la speranza.195
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
Fremono amor di patria
E me che i tempi ed il desio d’onore
Fan per diversa gente ir fuggitivo,
Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
L’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
**
Le Grazie, poemetto incompiuto (1803-1827)
Ma se danza, vedila!
Tutta l’armonia del suono scorre dal suo bel corpo,
e dal sorriso della sua bocca…