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Tiziano Terzani (Firenze, 14 settembre 1938 – Pistoia, 28 luglio 2004) è stato un giornalista e scrittore italiano. Ha viaggiato nello spazio (soprattutto in Asia, dove ha scritto alcuni dei più bei reportage giornalistici) e ha viaggiato nell’anima, cercando il senso della vita come pochi altri scrittori italiani. Come ha scritto in una sua celebre frase: “L’unico vero maestro non è in nessuna foresta, in nessuna capanna, in nessuna caverna di ghiaccio dell’Himalaya… È dentro di noi!“.
Scomparso nel 2004 a causa di un brutto male che lo affliggeva da tempo, negli ultimi due libri (“Un altro giro di giostra” e “La fine è il mio inizio”), Tiziano Terzani racconta la storia di un uomo che, dopo aver attraversato la vita, è giunto alle soglie della morte. E da lì, vede tutto in modo più lucido e distaccato. Sulla sua tomba compare come epitaffio una poesia dello scrittore di Haiku Matsuo Basho:
“Dilegua l’eco della campana del tempio:
persiste la fragranza delicata dei fiori.
Ed è sera.”
Presento una raccolta delle frasi di Tiziano Terzani, le più belle e spirituali. Tra i temi correlati 120 frasi illuminate di Buddha che ti aiuteranno per tutta la vita.
Frasi di Tiziano Terzani – Indice dei contenuti
La fine è il mio inizio, 2006
Un altro giro di giostra, 2004
Lettere contro la guerra, 2002
Un indovino mi disse, 1995
In Asia, 1998
Buonanotte Signor Lenin, 1992
Anam, il senzanome, 2005
Varie
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E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.
Guarda la natura da questo prato, guardala bene e ascoltala. Là, il cuculo; negli alberi tanti uccellini – chi sa chi sono? – coi loro gridi e il loro pigolio, i grilli nell’erba, il vento che passa tra le foglie. Un grande concerto che vive di vita sua, completamente indifferente, distaccato da quel che mi succede, dalla morte che aspetto. Le formicole continuano a camminare, gli uccelli cantano al loro dio, il vento soffia.
Ho sessantasei anni e questo grande viaggio della mia vita è arrivato alla fine. Sono al capolinea. Ma ci sono senza alcuna tristezza, anzi, quasi con un po’ di divertimento. L’altro giorno la Mamma mi ha chiesto «Se qualcuno telefonasse e ci dicesse d’aver scoperto una pillola che ti farebbe campare altri dieci anni, la prenderesti?» E io istintivamente ho risposto «No!» Perché non la vorrei, perché non vorrei vivere altri dieci anni. Per rifare tutto quello che ho già fatto? Sono stato nell’Himalaya, mi sono preparato a salpare per il grande oceano di pace e non vedo perché ora dovrei rimettermi su una barchetta a pescare, a far la vela. Non mi interessa.
Niente è permanente, niente è permanente in questa vita. Che vuoi essere permanente tu? Oh, ma chi te l’ha detto?!
Una volta ho incontrato un sadhu che diceva una cosa interessante. Non so se sia vera, ma mi pareva sensata. Mi diceva che novantotto pensieri dei cento che uno ha, li ha già avuti. Anche i pensieri si ripetono. Tanto vale perciò fermare il pensiero, zittirlo completamente, per trovare poi, forse, nel silenzio uno o due pensieri, ma che siano nuovi.
Il vero desiderio, se uno ne vuole uno, è quello di essere se stessi. L’unica cosa che uno può desiderare è di non avere più scelte, perché la scelta vera non è quella fra due dentifrici, fra due donne, fra due macchine. La scelta vera è quella di essere te stesso.
Che cos’è che ci fa così spavento della morte? Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l’idea che scomparirà in quell’attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un’ossessione.
Una strada c’è nella vita. La cosa buffa è che te ne accorgi solo quando è finita. Ti volti indietro e dici “oh, guarda, c’è un filo”. Quando vivi non lo vedi il filo, eppure c’è. Perché tutte le decisioni che prendi, tutte le scelte che fai sono determinate, si crede, dal libero arbitrio, ma anche questa è una balla. Sono determinate da qualcosa dentro di te che è innanzitutto il tuo istinto, e poi da qualcosa che gli indiani chiamano il karma accumulato fino ad allora.
L’inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un’illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c’è progresso. Non c’è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono.
Questo mondo è una meraviglia. Non c’è niente da fare, è una meraviglia. E se riesci a sentirti parte di questa meraviglia – ma non tu, con i tuoi due occhi e i tuoi due piedi; se Tu, questa essenza di te, sente d’essere parte di questa meraviglia – ma che vuoi di più, che vuoi di più? Una macchina nuova?
Mi sento leggero. Ho il senso che non mi tocca più nulla, perché non sono quella maschera, non sono questo corpo, non sono i miei ricordi, non sono… Sono una cosa molto più grande, molto più piccola, molto più particolare, ma non sono niente di tutto quello. E proprio perché non sono niente di specifico, mi posso permettere di pensare che sono tutto.
È strano, perché i cimiteri come noi li concepiamo sono luoghi di dolore, di sofferenza, di pianto, circondati da cipressi neri. Mentre in verità il grande cimitero della terra è bellissimo, perché è la natura. Ci crescono sopra i fiori, ci corrono sopra le formiche, gli elefanti.
Perché vedi, si muore dal momento che si nasce. Si è giovani e si pensa che la morte è degli altri. Ma se uno imparasse già da bambino che la morte è parte della vita, che tu puoi integrare la morte nella vita, allora la tua vita sarebbe più bella, perché conterrebbe questo contrasto e questa dimensione.
L’educazione dovrebbe cominciare con l’insegnare il valore della non violenza, che ha a che fare poi con tutto: con l’essere vegetariano, col rispettare il mondo, col pensare che questa terra non te l’han data a te, che è di tutti e tu non puoi impunemente metterti a tagliare e fare buchi.
No, non c’è futuro. Il futuro è una scatola vuota in cui metti tutte le tue illusioni.
La regola secondo me è: quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c’è più speranza. È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all’erta.
La vera comprensione è quella che va al di là della ragione e che si fonda sull’istinto, sul cuore.
A volte bisogna rischiar, fare altre cose. Occorre rinunziare ad alcune garanzie perché sono anche delle condizioni.
Se rimani nel conosciuto non scoprirai niente di nuovo. Come fai? Viaggi sui binari del conosciuto e rimani nel conosciuto.
E così è quando cerchi. Se sai cosa cerchi non troverai mai quello che non cerchi… e che magari è giusto la cosa che conta, no?
Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Questo è il giornalismo.
In verità io non ho mai lavorato. Ho fatto le cose che mi piacevano e guarda caso mi pagavano anche! Ma non ho mai sentito il lavoro come un peso, nel senso dell’alienazione: tu vendi il tuo tempo, le tue giornate, per cui lo stipendio che ti danno è una sorta di ricompensa perché ti hanno rubato qualcosa.
Libertà. Non ce n’è più. Io lo continuo a ripetere: non siamo mai stati così poco liberi, pur nella apparente enorme libertà di comprare, di scopare, di scegliere fra i vari dentifrici, fra le quarantamila automobili, fra i telefonini che fanno anche la fotografia. Non c’è più la libertà di essere chi sei. Perché tutto è già previsto, tutto è già incanalato e uscirne non è facile, crea conflitti. Quanta gente viene rigettata dal sistema, viene emarginata perché non rientra nel modello?
Vogliamo le mele tutte fatte tonde, tutte uguali, tutte lucide, e con questo eliminiamo la diversità che è il fondamento della vita. La di-ver-si-tà! Perché secondo me la ricchezza dell’umanità sta nella sua varietà.
Tutto il sistema è fatto in modo che l’uomo, senza neppure accorgersene, comincia sin da bambino a entrare in una mentalità che gli impedisce di pensare qualsiasi altra cosa. Finisce che non c’è nemmeno più bisogno della dittatura ormai, perché la dittatura è quella della scuola, della televisione, di quello che ti insegnano. Spegni la televisione e guadagni la libertà.
Pensa alla storia dell’umanità e al progresso che ha fatto l’uomo in termini materiali. Ha allungato la sua vita, va sulla luna, ma davvero non ha fatto alcun progresso dal punto di vista spirituale. Proprio nessuno, nessuno, nessuno. È un’illusione che l’uomo sia progredito.
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Un altro giro di giostra, 2004
La nostra vita quotidiana è piena di piccole luci che ci impediscono di vederne una più grande.
Ormai nessuno ha più tempo per nulla. Neppure di meravigliarsi, di inorridirsi, di commuoversi, di innamorarsi, di stare con se stessi. Le scuse per non fermarsi a chiederci se questo correre ci fa più felici sono migliaia e, se non ci sono, siamo bravissimi a inventarle.
Non c’è felicità per chi non viaggia, Rohita!
A forza di stare nella società degli uomini, anche il migliore di loro si perde. Mettiti in viaggio.
I piedi del viandante diventano fiori, la sua anima cresce e dà frutti e i suoi vizi son lavati via dalla fatica del viaggiatore.
Vivete una vita in cui potete riconoscervi!
La vera conoscenza non viene dai libri, neppure da quelli sacri, ma dall’esperienza. Il miglior modo per capire la realtà è attraverso i sentimenti, l’intuizione, non attraverso l’intelletto. L’intelletto è limitato.
È inutile saper leggere e scrivere, conoscere il sanscrito e l’intera letteratura, se non si conosce se stessi.
Finirai per trovarla la Via… se prima hai il coraggio di perderti.
l nostro concetto di morte è sbagliato.
Leghiamo troppo la morte alla paura, al dolore, alla tenebra, al nero: esattamente il contrario di quello che succede nella natura, in cui il sole muore ogni giorno in una gioiosa esplosione di luci, in cui le piante d’autunno muoiono al meglio di sé, con una grandiosa esuberanza di colori.
Se la vita fosse tutto un letto di rose sarebbe una benedizione o una condanna? Forse una condanna, perché se uno vive senza mai chiedersi perché vive, spreca una grande occasione. E solo il dolore spinge a porsi questa domanda.
Mi parve che tutta la mia vita fosse stata come su una giostra: fin dall’inizio m’era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a mio piacimento senza che mai – me ne resi conto allora per la prima volta -, mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto. No. Davvero il biglietto non ce l’avevo. Tutta la vita avevo viaggiato a ufo! Bene: ora passava il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, magari riuscivo anche a fare… un altro giro di giostra.
L’uomo dice che il tempo passa. Il tempo dice che l’uomo passa.
Vivo ora, qui, con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra.
Bisogna fermarsi per conoscersi, per essere se stessi.
Bisogna prepararsi e a volte la si sente: è la melodia della vita dentro, la vita che sostiene tutte le vite, la vita dove tutto ha il suo posto, dove tutto è integrato: il bene e il male, la salute e la malattia, la vita interna dove non c’è nascita e non c’è morte.
È sempre così difficile giudicare il senso di quel che ci capita nel momento in cui ci capita e bisognerebbe imparare, una volta per tutte, a dare meno peso a quella distinzione – bene o male, piacere o dispiacere – visto che il giudizio cambia col tempo e spesso il giudizio stesso finisce per non avere alcuno valore.
Non esistono scorciatoie a nulla: non certo alla salute, non alla felicità o alla saggezza. Niente di tutto questo può essere istantaneo. Ognuno deve cercare a modo suo, ognuno deve fare il proprio cammino, perché uno stesso posto può significare cose diverse a seconda di chi lo visita.
“Io chi sono?”. La risposta sta nel porsi la domanda, nel rendersi conto che io non sono il mio corpo, non sono quello che faccio, non sono quello che posseggo, non sono i rapporti che ho, non sono neppure i miei pensieri, non le mie esperienze, non quell’Io a cui teniamo così tanto. La risposta è senza parole. È nell’immergersi silenzioso dell’Io nel Sé.
I miracoli esistono e sono miracoli perché capitano una volta ogni tanto, perché sono qualcosa di insolito, qualcosa che non capiamo, perché sono un’eccezione alla regola del non-miracolo.
Questo è un altro aspetto rasserenante della natura: la sua immensa bellezza è lì per tutti. Nessuno può pensare di portarsi a casa un’alba o un tramonto.
Mi distesi nell’erba a guardare le stelle. Mi parve di vederle per la prima volta. E forse era davvero così, perché le guardavo senza sapere i loro nomi, senza cercare la Stella Polare o l’Orsa Minore. Immaginai di essere un uomo delle caverne che non ha letto nulla, che non ha studiato, che non «sa». E, libero da tutta quella «conoscenza», mi persi nella meravigliosa, consolante immensità dell’universo. Non la guardavo più. Ne ero parte.
Gli alberi sono come i sadhu: mentre tutti si muovono, loro restano magnificamente immobili, fermi, coscienti di sé, senza il bisogno di correre in qua e in là in cerca di qualcosa.
Se oltre al corpo siamo anche qualcos’altro, quel qualcosa non viene però nutrito bene, non viene annaffiato.
Mentre i nostri sensi sono continuamente rimpinzati di tutto quel che possono desiderare – suoni, odori, cose da vedere -, l’anima, se esiste, fa la fame, è assetata.
Come un vecchio veliero che, cercando di non andare a fondo in mezzo a una tempesta, butta a mare tutta la zavorra – le casse della polvere, i barili del rhum e tutto quel che prima era sembrato indispensabile -, io riducevo all’essenziale i rapporti umani e tagliavo via tutti i legami inutili, quelli tenuti per abitudine, per opportunismo, o per semplice cortesia
Meraviglioso, il silenzio! Eppure noi moderni, forse perché lo identifichiamo con la morte, lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura. Abbiamo perso l’abitudine a stare zitti, a stare soli. Se abbiamo un problema, se ci sentiamo prendere dallo sgomento, preferiamo correre a frastornarci con un qualche rumore, a mischiarci a una folla anziché metterci da una parte, in silenzio, a riflettere.
L’altra grande esperienza del mio stare lassù era la natura. Capivo perché certi popoli non abbiano avuto bisogno di scritture sacre, di messaggi portati da qualcuno venuto da un qualche aldilà. Quello davanti ai loro occhi, aperto a tutti, era il libro da leggere. Tutti i messaggi erano lì.
Oggi tutto è diventato come il caffè in polvere: istantaneo, e con ciò niente è più veramente particolare o prezioso.
Si guarda solo la sveglia. Siamo interessati solo al tempo che passa, a farlo passare, rimandando al poi quel che si vorrebbe davvero. Sul «poi», non sull’«ora», si concentra l’attenzione.
Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. È sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno.
Per gli indiani la vita non è fatta per essere semplicemente vissuta, ma per essere capita. In altre parole non si vive per vivere, ma per scoprire il senso del vivere.
Voi occidentali siete troppo attaccati alle cose. Siete fissati sulle cose. Uno perde, ad esempio, la sua penna e da allora non fa che pensare alla penna persa, senza dirsi che la penna non ha alcun valore, che si può scrivere anche con un lapis. In Occidente vi preoccupate troppo delle cose materiali.
Tutto quel che vedevo mi pareva perverso: una società in cui non si rispetta niente e nessuno, ma in cui tutti credono di essere liberi e di avere diritto a tutto, per finire soli e tristi.
L’idea che l’uomo sia superiore alle bestie e che per questo ha diritto di sfruttarle e di ucciderle a piacimento in India è semplicemente inconcepibile. La natura non è lì perché l’uomo ne faccia quel che vuole. Niente è suo. E, se l’uomo si serve di quel che c’è, deve dare qualcosa in cambio: almeno un ringraziamento agli dei che l’hanno creato.
In India si dice che l’ora più bella è quella dell’alba, quando la notte aleggia ancora nell’aria e il giorno non è ancora pieno, quando la distinzione fra tenebra e luce non è ancora netta e per qualche momento l’uomo, se vuole, se sa fare attenzione, può intuire che tutto ciò che nella vita gli appare in contrasto, il buio e la luce, il falso e il vero non sono che due aspetti della stessa cosa.
Quella che chiamiamo eufemisticamente “carne” sono in verità pezzi di cadaveri, di animali morti, morti ammazzati. Perché fare del proprio stomaco un cimitero?
Guardavo i maialini appesi agli uncini e pensavo a come, a parte la miseria e la fame, l’uomo ha sempre trovato strane giustificazioni per la sua violenza carnivora nei confronti degli altri esseri viventi. Uno degli argomenti che vengono ancora usati in Occidente per giustificare il massacro annuo di centinaia di milioni di polli, agnelli, maiali e bovi è che per vivere si ha bisogno di proteine. E gli elefanti? Da dove prendono le proteine gli elefanti?
Avete mai sentito le grida che vengono da un macello? Bisognerebbe che ognuno le sentisse, quelle grida, prima di attaccare una bistecchina. In ogni cellula di quella carne c’è il terrore di quella violenza, il veleno di quella improvvisa ultima paura dell’animale che muore.
Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.
Curarsi non vuol dire ingoiare una pillola ogni sei ore – disse.
Vuol dire purificare la propria mente e usarla per sostenere il processo di guarigione, può voler dire fare il bagno in un fiume sacro, andare in pellegrinaggio, partecipare a certi riti, recitare certi mantra. Curarsi vuol dire orientarsi verso un giusto stile di vita.
I medici possono essere dei buoni consiglieri, ma la decisione finale sul che fare o non fare tocca al paziente, perché quella decisione, in ultima analisi, non è né scientifica, né pratica. È esistenziale. E a ognuno spetta decidere come vuole ancora vivere.
La cosa strana è che l’uomo moderno studia, impara, si impratichisce con migliaia di cose, ma non impara niente sul morire. Anzi, evita in tutti i modi di parlarne (farlo è considerato scorretto come un tempo era il parlar di sesso); evita di pensarci e quando quel prevedibile, naturalissimo momento arriva, è impreparato, soffre terribilmente, si aggrappa alla vita e così facendo soffre ancora di più.
Non bisognerebbe mai tornare nel proprio passato, né cercare di ripetere oggi quel momento di gioia che già siamo stati fortunati d’avere avuto ieri.
Abbiamo tracciato un cerchio attorno alle nostre vite, ci siamo detti che è stregato e facciamo di tutto per non uscirne. Ma dentro a questo cerchio ci sentiamo limitati e soffriamo.
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Lettere contro la guerra, 2002
Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi.
L’unico modo di resistere è ostinarsi a pensare con la propria testa e soprattutto a sentire col proprio cuore.
A volte mi chiedo se il senso di frustrazione, d’impotenza che molti, specie fra i giovani, hanno dinanzi al mondo moderno è dovuto al fatto che esso appare loro così complicato, così difficile da capire che la sola reazione possibile è crederlo il mondo di qualcun altro: un mondo in cui non si può mettere le mani, un mondo che non si può cambiare. Ma non è così: il mondo è di tutti.
A noi può parere assurdo che gli altri non vogliano vivere, mangiare, vestirsi come noi; a noi occidentali può parere assurda una società che preferisce la poligamia e impone l’assoluta fedeltà, invece della nostra temporanea monogamia e della nostra costante promiscuità sessuale… A noi piace vedere il mondo come lo conosciamo.
Dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio. Spesso ci sentiamo angosciati dalla vita che facciamo, come l’uomo che scappa impaurito dalla sua ombra e dal rumore dei suoi passi. Più corre, più vede la sua ombra stargli dietro; più corre, più il rumore dei suoi passi si fa forte e lo turba, finché non si ferma e si siede all’ombra di un albero. Facciamo lo stesso.
Ancor più di una coalizione contro il terrorismo, il mondo ha bisogno di una coalizione contro la povertà, una coalizione contro lo sfruttamento, contro l’intolleranza.
Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi.
Sono arrivato alla mia età senza mai aver voluto appartenere a nulla, non a una chiesa, non a una religione: non ho avuto la tessera di nessun partito, non mi sono mai iscritto a nessuna associazione, né a quella dei cacciatori né a quella per la protezione degli animali.
Le montagne sono sempre generose. Mi regalano albe e tramonti irripetibili; il silenzio è rotto solo dai suoni della natura che lo rendono ancora più vivo.
Mi pare che i fatti sono solo un’apparenza e che la verità dentro di loro è al massimo come una bambola russa: appena la si apre se ne trova una più piccola e ancora una più piccola, e ancora una più piccola fino a che si resta solo con un minuscolo seme.
Piante e animali sono molto più aperti di mente di tanti esseri umani.
Passo gran parte del tempo nell’Himalaya e godo enormemente di non avere scadenze tranne quelle della natura: il buio è l’ora di andare a letto, la luce l’ora di alzarsi.
Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna.
L’occasione è di capire una volta per tutte che il mondo è uno, che ogni parte ha il suo senso, che è possibile rimpiazzare la logica della competitività con l’etica della coesistenza, che nessuno ha il monopolio di nulla, che l’idea di una civiltà superiore ad un’altra è solo frutto di ignoranza, che l’armonia, come la bellezza, sta nell’equilibrio degli opposti e che l’idea di eliminare uno dei due è semplicemente sacrilega. Come sarebbe il giorno senza la notte? La vita senza la morte?
Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo.
Facciamo più quello che è giusto, invece di quello che ci conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi.
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“Da qualche parte c’è qualcuno, per il quale nessuno ha votato, che spinge perché il mondo giri sempre più alla svelta, perché gli uomini diventino sempre più uguali in nome di una roba chiamata «globalizzazione» di cui pochi conoscono il significato e ancor meno hanno detto di volere.
Tutti dobbiamo chiederci – e sempre – se quel che stiamo facendo migliora e arricchisce la nostra esistenza. O abbiamo tutti, per una qualche innaturale deformazione, perso l’istinto per quel che la vita dovrebbe essere, e cioè soprattutto un’occasione di felicità?
Nella vita bisogna essere sempre come su questa nave: dei passeggeri. Non bisogna possedere nulla!
Che cosa sogna un monaco come te? Il satori. Un attimo di grande chiarezza. L’attimo in cui sei al di sopra di tutto. Un attimo. E tu nemmeno per un attimo ci sei arrivato?
Libero dalla routine di tutti i giorni, senza alcun dovere tranne quello con la propria coscienza, la mente si acquieta, riaffiorano pensieri inutili, pensieri piacevoli, impressioni sconnesse e al fondo una grande gioia.
Avevo da scegliere: potevo essere il me che desiderava, o il me che rideva del me che desiderava.
Ho scoperto prestissimo che i migliori compagni di viaggio sono i libri: parlano quando si ha bisogno, tacciono quando si vuole silenzio. Fanno compagnia senza essere invadenti. Danno moltissimo, senza chiedere nulla.
Il positivo entra ed esce dalla testa. Il negativo lascia un dubbio strisciante, un’inquietudine sorda; perché la paura è il fondo della condizione umana.
Quel che mi è sempre piaciuto del buddhismo è la sua tolleranza, l’assenza del peccato, la mancanza di quel peso sordo che noi occidentali, invece, ci portiamo sempre dietro e che è in fondo la colla della nostra civiltà: il senso di colpa.
Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare. Darsi tempo, stare seduti in una casa da tè a osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l’amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove.
Viaggiare ha senso solo se si torna con una qualche risposta nella valigia.
Le stazioni sono una mia vecchia passione. Potrei passarci giornate intere, seduto in un angolo, a guardare quel che succede. Quale altro posto, meglio di una stazione, riflette lo spirito di un paese, lo stato d’animo della gente, i suoi problemi?
Quanti massacri, quanti terremoti avvengono nel mondo, quante navi affondano, quanti vulcani esplodono e quanta, quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa! Eppure, se non c’è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro, è come se quei fatti non fossero mai avvenuti! Sofferenze senza conseguenza, senza storia. Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta.
Forse in ogni uomo c’è un primordiale, istintivo bisogno, ogni tanto, di imporsi dei limiti, di scommettere con delle difficoltà, per poi sentire di essersi “meritato” qualcosa di desiderato.
Più ci si guarda attorno, più ci si rende conto che il nostro modo di vivere si fa sempre più insensato. Tutti corrono, ma verso dove? Perché? Molti sentono che questo correre non ci si addice e che ci fa perdere tanti vecchi piaceri. Ma chi ha ormai il coraggio di dire: «Fermi! Cambiamo strada»?
Questo benedetto progresso che ci allunga la vita, ci rende più ricchi, più sani, più belli, ma in fondo ci fa anche sempre meno felici. Non c’è da meravigliarsi che la depressione sia diventata un male tanto comune. È quasi rincuorante. È un segno che dentro la gente resta un desiderio di umanità.
La depressione diventa un diritto, quando uno si guarda attorno e non vede niente o nessuno che lo ispiri, quando il mondo sembra scivolare via in una gora di ottusità e di grettezza materialista. Non ci sono più ideali, non ci sono più fedi, non ci sono più sogni. Non c’è più niente di grande in cui credere; non un maestro cui rifarsi.
La formula che fa funzionare questi gruppi totalitari è sempre la stessa: un’ideologia semplice, un capo carismatico, un’uniforme, rigide regole di comportamento e in compenso la promessa di una qualche salvazione… anzitutto dalla noia e dalla routine della vita quotidiana.
Brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino d’infanzia, a una Disneyland senza confini.
L’arte, quella scorciatoia alla percezione di grandezza? Anche lei non aiuta più la gente a capire l’essenza delle cose. La musica sembra ormai fatta per arrivare alle orecchie, non all’anima; la pittura è spesso un’offesa agli occhi; la letteratura, anche lei, è sempre più dominata dalle leggi del «mercato».
Se mai ci fosse una persona eccezionale, qualcuno con delle idee fuori del comune, con un qualche progetto che non fosse quello di imbonire tutti promettendo felicità, quel qualcuno non verrebbe mai eletto. Il voto dei più non lo avrebbe mai.
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Il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare.
L’Occidente è la cultura intesa come scienza, cioè come conoscenza del mondo attorno all’io, mentre l’io è solo strumento e luogo di pensiero; ne derivano le scienze della natura e dell’osservazione. L’Oriente invece vuol dire cultura in quanto ricerca dell’io pensante, il pensiero inteso come pensiero dell’io che pensa se stesso perché l’io non è parte del tutto, ma il tutto.
Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo?
Dov’è la saggezza che abbiam perso con la conoscenza?
Dov’è la conoscenza che abbiam perso con l’informazione?
Dio ha creato noi e noi abbiamo creato la povertà. Il problema si risolverà solo quando noi avremo rinunciato alla nostra ingordigia.
Una volta mi capitò di prendere un uomo coperto di vermi. Mi ci vollero delle ore per lavarlo e togliergli a uno a uno tutti i vermi dalla carne. Alla fine disse: “Son vissuto come un animale per le strade, ma muoio come un angelo” e, morendo, mi fece un bellissimo sorriso. Tutto qui. Questo è il nostro lavoro: amore in azione. Semplice.
Due giapponesi che s’incontrano per la prima volta devono immediatamente stabilire la rispettiva posizione sociale… se non altro per sapere quanto profondamente debbono inchinarsi l’uno davanti all’altro. Siccome in questo paese uno non è quello che è, ma è il ruolo che ha, l’ossessivo scambio dei biglietti da visita, che descrivono con grande precisione il rango del loro portatore, serve a togliere i giapponesi dall’insopportabile imbarazzo di non sapere dove stanno rispetto al loro interlocutore.
Bastano pochi giorni a Phnom Penh per adattarsi a un ritmo diverso di vita, per entrare nella logica di un altro mondo in cui realtà e fantasia, ragione e superstizione si confondono continuamente. Phnom Penh è una città stregata, dove ormai uomini e spiriti coabitano. I soldati che partono per la zona d’operazione con un’immagine di Buddha fra i denti o con la testa fasciata da uno straccio colorato per difendersi dalle pallottole non meravigliano nessuno.
La guerra è una cosa triste, ma ancora più triste è il fatto che ci si fa l’abitudine.
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Le rivoluzioni costano carissime, richiedono immensi sacrifici e perlopiù finiscono in spaventose delusioni.
La Storia non esiste. Il passato è solo uno strumento del presente e come tale è raccontato e semplificato per servire gli interessi di oggi.
Mi perdo a pensare quant’è umanamente particolare questo momento storico dell’Unione Sovietica. Il sistema comunista, che per decenni ha determinato la vita di tutti, e spessissimo anche la loro morte, sta crollando. Ma d’un tratto è come se quel sistema fosse stato imposto da qualcuno venuto dallo spazio, come se nessuno quaggiù avesse contribuito a tenerlo in piedi. La corsa all’«io non c’ero e, se c’ero, ero una vittima» è pateticamente incominciata.
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Tutta la nostra società è fatta per dare spago alla violenza, e allora violenza produce violenza, non c’è niente da fare. Per questo anche il mio essere vegetariano è una scelta morale. Ma come si può allevare la vita per uccidere e mangiarsela? Come si può tenere in delle spaventose, spaventose gabbie, migliaia e migliaia e migliaia di polli a cui si deve tagliare il becco perché non becchino, impazziti come sono, le galline che gli stanno avanti? Come si può allevare un vitello – che è bello, no? – un piccolo vitello, chiuderlo in una scatola di ferro, in una gabbia di ferro, perché cresca anchilosato dentro e la sua carne rimanga bianca?
Hai mai sentito gli urli di un macello di maiali? E come puoi mangiare il maiale, poi? È impossibile.
Tutto lo sforzo economico moderno è fondato sul concetto che lo sviluppo è crescita, crescita, crescita. È un meccanismo tutto inteso a crescere, come se l’uomo, anche fisicamente, avesse l’obiettivo continuo della crescita aumentando con questo la sua umanità. Non viene mai considerato, dalle teorie economiche il numero delle persone felici.
Sono finito in India perché secondo me l’India è l’origine di tutto, è… è il punto di partenza di tutto […]. L’India è ancora un paese dove il divino è nella quotidianità della gente, nei gesti.
Tutta la nostra società è fatta per dare spago alla violenza, e allora violenza produce violenza, non c’è niente da fare.
Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi dispiace solo che non potrò scriverne.
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Io li vedo, si vestono tutti uguali, hanno comportamenti tutti uguali: questa povera gente è costretta a comportamenti che impediscono loro l’esercizio della più bella cosa che anche un manager dovrebbe avere: la fantasia. Un grande manager è qualcuno capace di inventare qualcosa di nuovo, non di riprodurre qualcosa di stantio, magari semplicemente ridipinto.
Anche i manager devono riscoprire i mille colori dell’arcobaleno
Oggi l’economia è fatta, per costringere tanta gente, a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose per lo più inutili, che altri lavorano a ritmi spaventosi, per poter comprare, perché questo è ciò che da soldi alle società multinazionali, alle grandi aziende, ma non dà felicità alla gente. Io trovo che c’è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola felice, ed è contento, accontentarsi, uno che si accontenta è un uomo felice.
Che errore è stato allontanarsi dalla natura! Nella sua varietà, nella sua bellezza, nella sua crudeltà, nella sua infinita, ineguagliabile grandezza c’è tutto il senso della vita.
I punti di vista. Il sole visto dalla terra sembra sorgere e tramontare, ma il sole visto da sé non sorge né tramonta ed è sempre fiammante e infuocato. Così il corpo: dal punto di vista dell’Io sembra nascere e morire, ma dal punto di vista della coscienza?