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Le frasi e poesie più belle di Anna Achmatova

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Anna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966), è una delle più importanti poetesse russe del Novecento. In realtà Anna Achmatova non amava l’appellativo di poetessa, e preferiva farsi definire poeta, al maschile.

Presento una raccolta delle frasi e poesie più belle di Anna Achmatova. Tra i temi correlati Le frasi e poesie più belle di Marina Cvetaeva.

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Le frasi e poesie più belle di Anna Achmatova

Giunse l’estate in una notte sola,
e così non si vide Primavera.
Ed allora non ebbi più paura
che mi passasse accanto il mio destino.

Non ho la forza di chiudere la porta che hai lasciato socchiusa

Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.

Sentirai il tuono
e mi ricorderai,
pensando: lei voleva la tempesta.
L’orlo del cielo
avrà il colore del rosso intenso,
e il tuo cuore,
come allora, sarà in fiamme.

Ho soltanto un sorriso.
Così. Un moto appena visibile di labbra.
E per te lo conservo:
ché è un dono dell’amore.

Non mi ami, non ne dubito
Nè mai potrai amarmi?
Perché dunque un estraneo
In tal modo mi attira?

In te vacillo, cado e mi alzo ardendo…
tu tra tutti gli esseri hai il diritto di vedermi debole.

Lascio la casa bianca e il muto giardino.
Deserta e luminosa mi sarà la vita.

Perdona se son vissuta affliggendomi,
e il sole poco m’ha allietata.
Perdona, perdona se molti
ho scambiato per te.

Le labbra si fondono nel terribile silenzio
E il cuore si spezza per amore.

Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo,
come vuole la carne separarsi dall’anima,
così io adesso voglio essere scordata.

Sii maledetto. Non sfiorerò con gemiti
o sguardi l’anima dannata,
ma ti giuro sul paradiso,
sull’icona miracolosa
e sull’ebbrezza delle nostre notti ardenti:
mai più tornerò da te.

Gli occhi guardano distratti e non piangeranno mai più.
La bocca bianca è socchiusa,
ineguale il respiro affannato,
e sul mio petto tremano i fiori
dell’incontro che non c’è stato.

Né mistero né dolore
né volontà sapiente del destino:
sempre quell’incontrarci ci lasciava
l’impressione di una lotta.
Ed io, indovinato dal mattino
l’attimo del tuo arrivo,
percepivo nei palmi socchiusi
il morso leggero di un tremito.
Con dita arse sgualcivo
la variopinta tovaglia del tavolo…
Capivo fin da allora
quanto è angusta questa terra.

Oggi ho così tanto da fare.
Bisogna uccidere fino in fondo la memoria,
bisogna che l’anima si pietrifichi,
bisogna di nuovo imparare a vivere.

La tenerezza vera non si confonde con niente.
È silenziosa…

La tua voce è selvaggia e semplice.
Sei intraducibile
In qualsiasi lingua.

Creata da una tua costola,
come posso non amarti?

Invecchiammo di cent’anni,
e accadde nel corso di un’ora sola:
la breve estate volgeva alla fine,
fumava il corpo delle piane arate.

Vivere è solo un’abitudine.

E tu venisti a me come guidato da una stella
Percorrendo un tragico autunno
In quella casa devastata da sempre

Nero e duro distacco
che io sopporto al pari di te
Perché piangi? Dammi meglio la mano
prometti di ritornare in sogno
Noi siamo come due monti
non ci incontreremo più a questo mondo
Se solo, quando giunge mezzanotte
mi mandassi un saluto con le stelle.

Vivere come posso con questo fardello,
E ancora la chiamano Musa,
Dicono: «Tu con lei sul prato…»
Dicono: «Divino mormorio…»
Più violenta della febbre ti dà i brividi,
E di nuovo, per tutto l’anno, non una sillaba.

Nell’ora assonnata del mattino –
mi sembra alle quattro e un quarto –
io mi sono innamorata di Voi.

Oh esiste un fuoco
che non osa
Toccare né oblio né paura..
E se sapessi
come mi son care
Ora le tue rosse aride labbra

In quella casa devastata per sempre,
Da cui si alzava uno stormo di versi bruciati.

Ho scritto parole che per tanto tempo
non ho osato pronunciare.

Ebbi solo un sussulto:
quest’uomo può domarmi.

Non so se sei vivo o sei perduto per sempre,
se posso ancora cercarti nel mondo
o ti debbo piangere mestamente
come morto nei pensieri della sera.

Nell’autunnale sussurro degli aceri
mi hai chiesto: “Muori con me”

Tutto arde di madreperla, diaspro,
ma arcana e nascosta è la fonte di luce.

Domani sarà un mattino
di serenità.
La vita è splendida,
sii saggio, cuore.
Sei così stanco,
rallenta, batti piano.
Pensa, ho letto che
l’anima è immortale.

Il petto senza forza raggelava,
eppure leggeri erano i passi.
Ho infilato il guanto di sinistra
nel posto della destra.
Sembrava che i gradini fossero tanti,
ma io sapevo che erano soltanto tre!
Nell’autunnale sussurro degli aceri
mi ha chiesto: “Muori con me!

Mi hai inventata.
Una così sulla terra non c’è,
non può esserci.
Non la guarirà un medico,
non la placherà un poeta.

In affanno, ho gridato: “Scherzavo, dai.
È stato tutto uno scherzo. Muoio, se te ne vai.”
Con un sorriso freddo, mi ha risposto
tranquillo: “Non startene lì al vento”.

Non ti conosco.
E in cosa potrei esserti di aiuto?
Dalla felicità io non guarisco.

Non baciarmi, sono stanco –
La morte mi bacerà.

Ognuna delle nostre vite è un dramma shakespeariano elevato all’ennesima potenza.

E quel cuore più non risponderà
Alla mia voce, esultante e afflitto.
Tutto è finito… E il mio canto risuona
Nella notte vuota, ove più tu non sei.

Sapevo che tu mi sognavi.
Perciò non potevo dormire.

È bello qua: sussurri e crepitii;
il gelo è più forte ogni mattina,
e il cespuglio piega in una bianca fiamma
di accecanti rose di ghiaccio.
E sulle nevi sfarzose,… il ricordo
di quando, in secoli remoti,
noi due da qui passammo insieme.

Delle mie gambe non so più che fare,
in coda di pesce perciò siano mutate!
Che gioia e che freschezza nel nuotare,
e da lontano biancheggia pallido un ponte.

A che mi serve quest’anima paziente,
che vada pure in fumo
e in tenere volute azzurre si alzi in volo
dal lungofiume buio

La vita ha tutti noi ospitato un poco,
Vivere è soltanto un’abitudine

Io crebbi in un silenzio arabescato, in un’ariosa stanza del nuovo secolo.
Non mi era cara la voce dell’uomo, ma comprendevo quella del vento.

Io vivo come il cuculo nell’orologio,
non invidio gli uccelli dei boschi.
Mi danno la carica e canto.
Tu sai, una simile sorte
a un nemico soltanto
posso augurarla.

C’è nel contatto umano un limite fatale,
non lo varca né amore né passione,
pur se in muto spavento si fondono le labbra
e il cuore si dilacera d’amore.

E certo molte cose ancora
vogliono da me il loro canto.
Ciò che rintocca senza verbo,
ciò che scava nel buio la pietra sotterranea,
ciò che si apre una strada nel fumo.
E ancora non ho fatto i conti,
con la fiamma, col vento, coll’acqua…
Per questo nel dormiveglia
mi si aprono ad un tratto strane porte,
che mi indicano la stella mattutina.

Ho colto gigli splendidi e profumati,
pudicamente chiusi,
come una schiera di fanciulle innocenti.
Dai tremuli petali, bagnati di rugiada,
ho bevuto profumo, felicità, pace.

Ti canterò perché tu non pianga
Una canzone alla sera degli addii.