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Michela Murgia (Cabras, 3 giugno 1972) è una scrittrice, intellettuale e opinionista italiana, autrice di diversi romanzi e saggi, tra cui Accabadora vincitore dei premi Campiello, Dessì e SuperMondello.
Presento una raccolta delle frasi più belle e toccanti di Michela Murgia. Tra i temi correlati Le frasi più belle di Elena Ferrante, Frasi, citazioni e aforismi di Elsa Morante e Frasi, citazioni e aforismi di Grazia Deledda.
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Le frasi più belle di Michela Murgia
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Intervista ad Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 6 maggio 2023
Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno.
[Lei scrive «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?] Dal quarto stadio non si torna indietro. [Rispondendo alla domanda “la morte non le pare un’ingiustizia?”] Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi [Rispondendo alla domanda “Lei pensa e sogna in sardo?”] «Certo. Non soltanto: penso in sardo e traduco in italiano; sono due Michele diverse, una sarda e una italiana. Alla stessa domanda se penso in italiano do una risposta, se penso in sardo un’altra.L’Italia e la Sardegna sono due cose diverse. Per voi la Sardegna è l’isola delle vacanze. Non vi rendete conto che c’è una base militare ogni 150 chilometri, perché d’estate interrompono i tiri per non disturbare i turisti. L’altro giorno ero all’orto botanico, qui a Trastevere. La persona che era con me è trasalita per il botto del cannone del Gianicolo. Io no. Noi sardi siamo abituati ai rumori di guerra».
Nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni e ho appeso alle querce cinquanta vestiti. In questo tempo ho avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un percorso collettivo.
Ho dieci persone. La mia “queer family”. Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda.
Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare.
[Come immagina l’Aldilà?] Non un luogo, ma uno stato sentimentale. Dio è una relazione. Non penso che la vita dopo la morte sia tanto diversa. Vivrò relazioni non molto differenti da quelle che vivo qui, dove la comunione è fortissima. Nell’Aldilà sarà una comunione continua, senza intervalli». [Non ha paura della morte?] No. Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio.Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai.
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Il mondo deve sapere – Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, 2006
Il lavoro è organizzato come in un gulag svizzero. Dodici ore filate divise in tre turni di quattro ore, senza soluzione di continuità. La casalinga non ha scampo. È lei il target della diabolica organizzazione Kirby.
In questi posti chi ti assume è sempre uno psicologo. Cosa spinge uno che ha fatto psicologia a fare questo lavoro di merda? È un mistero più grande della transustanziazione.
Le scienze umane della psicologia sociale in mano a questa gente diventano armi di distruzione di massa.
Si può inchiappettare qualcuno in ogni posizione nel Kamasutra del marketing
L’arroganza che diventa tecnica di vendita, assumendo il nome in codice di SicurezzaDiSé.
Sublime.
Mi daranno il premio Nobel per il precariato.
Per poi levarmelo dopo due mesi.
A volte ci sono delle persone che quando mi rispondono al telefono mi fanno pentire di non averlo fatto prima, questo pseudolavoro. Stavolta è un uomo, un signore deliziosamente sveglio, per essere un maschio. Non è per sessismo, è che i maschi sono oggettivamente più sprovveduti davanti a una voce di donna al telefono. Anche non al telefono, se è per quello. Ma questo è un altro discorso.
Qui bisogna sorridere sempre, perché non si vende solo il Kirby. Si vende una filosofia di vita. Think Positive, Little Rose. Come direbbe la nonna, se ti stuprano e non puoi opporti, rilassati e cerca almeno di godertela.
Perché alla fine ha ragione Stephen King, l’orrore è nel quotidiano, non è nel mostro che viene dallo spazio, è nella tazzina di caffè che non hai bevuto perché ha squillato il telefono.
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Accabadora, 2009
Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima.
Non metterti a dare nomi alle cose che non conosci, Maria Listru. Farai tante scelte nella vita che non ti piacerà fare, e le farai anche tu perché vanno fatte, come tutti.
Le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge.
Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.
Quanti anni avesse Tzia Bonaria allora non era facile da capire , ma erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse pazientemente di essere raggiunta dal tempo in ritardo.
Ti ho picchiato perché mi hai detto una bugia. Le mandorle si ricomprano, ma alla bugia non c’è rimedio. Ogni volta che apri bocca per parlare, ricordati che è con la parola che Dio ha creato il mondo.
Nell’ora della debolezza alcuni preferiscono diventare credenti piuttosto che forti.
Fillus de anima.
E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra.
Per diverse ore attorno al corpo si susseguirono le voci delle donne e degli uomini, secondo una liturgia che alternava il pianto, la preghiera e la memoria in sequenza. Nessun passaggio poteva essere saltato, perché quel codice era indispensabile alla comunità per ricomporre la frattura fra presenze e assenze.
Gli appezzamenti piccoli e irregolari raccontavano di famiglie con troppi figli e nessuna intesa, frantumate in una miriade di confini fatti a muretto a secco, in basalto nero, ciascuno con il suo astio a tenerlo su.
«Quando finisce un lutto, Tzia?»
La vecchia non aveva alzato nemmeno la testa dal grembiulino che stava rifinendo.
«Che domande mi fai… quando finisce il dolore finisce il lutto».
«Quindi il lutto serve a far vedere che c’è il dolore…», aveva commentato Maria credendo di capire, mentre la conversazione già sfumava nel silenzio lento dell’ago e del filo.
«No, Maria, il lutto non serve a quello. Il dolore è nudo, e il nero serve a coprirlo, non a farlo vedere»
Durante quel viaggio Maria si ingegnò per non dormire… il tempo le servì per farsi accabadora dei suoi ricordi, e trattare gli avvenimenti… come persone da far salire o meno sul traghetto per il continente. Uno per uno li segnò, mentre li ricordava per dimenticarli, e quando arrivò al porto di Genova scese dalla nave sentendosi più legger, convinta di aver lasciato sull’altra terra tutta la zavorra delle sue ferite.
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Ave Mary
E la chiesa inventò la donna, 2011
A lungo mi sono chiesta come fosse possibile che persone intelligenti, il più delle volte colte, spesso autonome economicamente, accettassero di essere oggetto di violenza all’interno della propria relazione. Adesso so che contano l’educazione femminile, frutto di secoli di addestramento alla subordinazione, e anche la parallela formazione maschile, imbevuta di proiezioni dominanti e possessive.
Mentre l’uomo per generazioni è stato incoraggiato sin da bambino a essere volitivo e perentorio – e probabilmente più manifestava la propensione al rifiuto, più di lui si diceva che avesse «carattere» – alle bambine si insegnava invece la virtù dell’obbedienza, a essere compiacenti, inculcando in loro l’idea che il no fosse scortesia e il rifiuto superbia e presunzione di sé. In questo modo le donne sono cresciute con l’idea di essere una specie consenziente, ma ha finito per radicarsi anche negli uomini l’errata convinzione che le donne quando dicono no in realtà vogliano dire forse, e quando dicono forse è perché in fondo desiderano dire sì. Su questo sfondo culturale, i rifiuti delle donne non sono quasi mai considerati una cosa seria.
Essere identificati come vittime è una condizione che dovrebbe essere transitoria per chiunque, legata a precise circostanze. Non si è vittime per il solo fatto di esistere come femmine invece che come maschi, ma lo si è sempre di qualcosa o di qualcuno. Il tentativo di trasformare le persone in vittime permanenti a prescindere dalle circostanze costringe la vittima al ruolo di vittimizzata, che è un’altra forma di violenza, più sottile e pervasiva, perché impone una condizione di passività che preclude la facoltà di riscattarsi. Il soggetto non può tentare di uscire dalla condizione di vittima, perché intorno ha un intero sistema che gli impedisce di essere qualcosa di diverso.
Finché la volontà dell’uomo continuerà a essere l’unica fonte di diritto, la volontà delle donne sarà costretta a porsi come elemento di conflitto.
Il buon senso popolare è convinto nel profondo del fatto che sì, Adamo sarà stato anche ingenuo e sciocco a cascarci, ma alla fine dei conti il tutto è partito dalla donna. La colpa della morte, e insieme di tutta la condizione di fatica e limite propria dell’esperienza umana, è quindi di Eva, archetipo primo del genere femminile.
Non è stato il cattolicesimo a inventare la prassi della subalternità della donna nel matrimonio, nè la concezione di inferiorità che la fonda, è anzi evidente che quell’idea esisteva da secoli. Tuttavia i padri della Chiesa potevano scegliere di utilizzare il potenziale destabilizzante e innovativo dell’annuncio cristiano e della figura di Maria per modificare alla radice le situazioni di ingiustizia e svalutazione della persona che quel sistema imponeva e continua imporre. In forza del sacrificio di Cristo – e San Paolo l’aveva capito tanto bene da metterlo per iscritto nella lettera ai Galati – non esisteva più la gerarchia … tra uomo e donna: il cristianesimo rifondava l’ordine stesso del cosmo. Se la Chiesa non si è inventata la subordinazione tra i sessi, ha deciso di legittimarla spiritualmente.
La chirurgia estetica in continuo sviluppo, la cosmetica antiage che ci lusinga dagli scaffali e la maniacale manutenzione da palestra a cui ci sottoponiamo non sono solo l’effetto del martellamento pubblicitario che denigra le nostre normalità, ma sono segnali di un desiderio di trasformare il corpo in santuario immutabile, l’indizio dell’incapacità di fare pace con la morte, la nostra.
Il terrorismo estetico alimenta nelle donne anche la paura che trascurare l’aspetto fisico possa significare non fare abbastanza per la propria salute
Invece di accrescere l’autorevolezza, l’età avanzata colloca infatti le donne in una posizione di ulteriore fragilità, perché all’abbassamento del parametro estetico si accompagna anche lo svilimento pubblico della capacità intellettuale, qualora fosse stata prima riconosciuta.
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L’incontro, 2012
Nessun Natale trascorso in famiglia compete dentro all’anima con il vento in faccia di certe discese in bicicletta senza mani, col riflesso della treccia scura che dondola sulla schiena della bambina più bella o con la rovente vergogna di un giornale per grandi trovato tra gli sterpi e sfogliato insieme in silenzio, attoniti. In quelle verginità perdute c’è il segreto patto dei veri complici, il potere normativo delle prime consapevolezze comuni, contro le quali non esiste famiglia che possa pretendere maggiori diritti.
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Chirú, 2015
Amarsi vuol dire perdere l’equilibrio, derubarsi l’un l’altro, attrarsi e spaventarsi, scambiarsi di posto.
L’amore è la più deformante delle energie, può chiederci addirittura di sacrificare noi stessi.
Della sua fragilità in quell’istante amai proprio quello che dell’amore si paga piú caro: l’assenza di calcolo e di misura che appartiene solo alle cose nate libere.
Ci sono cose che non diventano autentiche fino a quando non le chiami per nome, e cose che invece quando le nomi perdono ogni verità….
Non capiva perché le persone passassero tutta la vita a cercare di essere piú speciali degli altri: se solo avessero immaginato cosa significava essere diversi in un posto in cui essere diversi voleva dire essere soli, ciascuno si sarebbe accontentato di sé stesso.
Una famiglia è il posto dove essere sangue del sangue significa essere l’uno la ferita dell’altro.
Ci sono anime che hanno addosso un’incrinatura segreta, una frattura sospesa che sfugge anche a chi la porta dentro. Quella linea sottile può restare invisibile per lungo tempo, animando l’illusione dell’intero come fa la crepa nel cuore di un piatto scheggiato. Quando quella frattura cede è sempre a causa di un niente : basta un grado in meno nell’aria a provocare la contrazione della materia e metterne a nudo la ferita
La cosa che il sardo sa dire meglio non è l’amore. È la nostalgia.
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Istruzioni per diventare fascisti, 2018
Una democrazia giovane, specialmente se nata da una guerra o da una rivoluzione civile, sarà molto reattiva al fascismo, ma una democrazia – poniamo caso – con addosso una settantina d’anni avrà perso gran parte della memoria iniziale di sé e avrà seppellito i testimoni oculari che con i loro racconti reggevano la sua retorica.
Il fascismo per fortuna sa aspettare. É come un herpes – gli organismi primari sono sempre quelli da cui si impara di più – che può resistere interi decenni nel midollo della democrazia facendo credere di essere scomparso, salvo saltare fuori più virale che mai al primo prevedibile indebolimento del suo sistema immunitario.
Chi è popolare si riconosce nel popolo, ma chi è populista può fare di più: offrire al popolo qualcuno in cui riconoscersi.
Il rischio è dire: se tutto è fascismo, niente lo è. Non è così. Non tutto è fascismo, ma il fascismo ha la fantastica capacità, se non vigiliamo costantemente, di contaminare tutto.
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Noi siamo tempesta, 2019
Se la vita ti porta via qualcosa e ti rende fragile, non è la forza dell’altro che ti serve, ma sapere che la tua debolezza è accolta e capita, che nessuno la teme o la sfugge.
Essere malati in un certo senso vuol dire essere speciali, ma solo se c’è qualcuno che quella specialità decide di amarla così com’è. Altrimenti essere speciale è solo un modo gentile per dire che sei solo.
Una nave non è solo una nave: è un’idea che galleggia e dice che in questo mare, in questo mondo, non siamo soli.
Essere amici è questo: diventare il battito che spinge l’altro più lontano di quanto potrebbe mai arrivare da solo
Impara più cose che puoi: solo gli insetti si specializzano. Sei un insetto tu?
Forse è a questo che serve l’arte, a far vedere i fili nascosti tra le cose e tra le persone. Non è così strano se a molti l’arte non piace: gli fa vedere quanto siano prigionieri, burattini, mosche intrappolate nella tela degli altri.
Deve essere difficile essere un genio, costretto a pensare che tutto dipenda dalla tua intuizione, immaginarti sempre come se fossi unico al mondo, dover misurare le sfide solo sulle tue capacità, vederti sempre come straordinario e sentire ogni fallimento come se fosse il disastro di una vita intera.
E se a cambiare fossero le storie che ci insegnano da bambini? Se anziché farli addormentare sognandosi soli contro il mondo e l’uno contro l’altro dessimo loro avventure dove diventare potenti insieme?
Gli uomini spesso scambiano l’ambizione con la speranza. L’ambizione è il desiderio che le cose che fai si realizzino così come le vuoi; la speranza è la certezza che fare quelle cose abbia un senso comunque, indipendentemente da come finiranno, perché ci sono cose che vanno fatte solo perché è giusto e necessario.
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Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, 2021
il problema non è quanta pelle si veda del corpo di una donna, ma quanto lo sguardo maschile sia formato culturalmente a sessualizzare ogni centimetro che ne scorge. Se hai la testa a forma di fucile, tutto quello che vedi ti sembra un bersaglio, ed evidentemente la testa a forma di fucile, in questo Paese, ce l’avevano e continua ad avercela ancora in parecchi.
Il mansplaining, parola resa al meglio in italiano dal neologismo «minchiarimento», è proprio questo: una pratica sessista di superiorità paternalistica esercitata da qualunque uomo che, in una discussione con una donna, si metta a illustrarle le cose in modo accondiscendente e semplificato, dando per scontato che lei ne sappia meno di lui anche quando ci sarebbero abbastanza elementi per supporre il contrario.
La donna socialmente gradita è una donna silenziosa, che diletta con qualunque arte, tranne quella oratoria.
Il silenzio è una virtù, ma solo se sono le donne a praticarlo. Agli uomini nessuno chiede di tacere le loro riflessioni interiori, anzi sono così sollecitati a condividerle che è lecito sospettare che prima di parlare parecchi di loro non abbiano riflettuto a sufficienza.
La donna che non vuole irritare l’uomo con cui si sta confrontando deve agognare di avere spesso torto o almeno di non avere sempre ragione. Specialmente quando ha ragione.
Il linguaggio è un’infrastruttura culturale che riproduce rapporti di potere. L’imposizione del cosiddetto maschile universale è un modo per dire che state occupando abusivamente il posto di un uomo, ma che questa anomalia durerà talmente poco che non vale nemmeno la pena di trovare una parola esatta che la definisca. Alcune di queste donne, convinte che «i problemi siano ben altri», hanno rinunciato alla pretesa di vedersi declinare la carica secondo il proprio genere, salvo poi verificare a loro spese che dietro il rifiuto di rispettare la grammatica si nascondeva (nemmeno troppo bene) il rifiuto di rispettare loro.