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Considerato l’incarnazione del poeta maledetto, Arthur Rimbaud (Charleville 20 ottobre 1854 – Marsiglia 10 novembre 1891) attraversò come una meteora il decadentismo e il simbolismo contribuendo alla nascita della poesia moderna.
A proposito della poesia, Arthur Rimbaud scrisse: “Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi”. Su Arthur Rimbaud Jean Cocteau scriverà: “L’essere più straordinario che abbia mai solcato la terra”.
Presento una raccolta delle più belle poesie di Arthur Rimbaud. Tra i temi correlati si veda Le più belle poesie di Charles Baudelaire e Le più belle poesie di Jacques Prévert.
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Le più belle poesie di Arthur Rimbaud
La mia bohème (fantasia)
Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
anche il mio cappotto diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa!, ed ero il tuo leale;
oh! quanti amori assurdi ho strasognato!
Nei miei unici calzoni avevo un largo squarcio.
– Pollicino sognatore, in corsa sgranavo
rime. Il mio castello era l’Orsa Maggiore.
– Le mie stelle in cielo facevano un dolce fru-fru.
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade,
nelle calme sere di settembre in cui sentivo
sulla fronte le gocce di rugiada, come un vino vigoroso;
in cui, rimando in mezzo a quelle ombre fantastiche,
come fossero lire, tiravo gli elastici
delle mie suole ferite, con un piede contro il cuore.
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Vocali
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno le vostre segrete origini:
A nero, corsetto villoso delle mosche lucenti
che ronzano intorno a crudeli fetori,
golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d’umbelle;
I, porpora, sputo di sangue, riso di belle labbra
nella collera o nelle ebrezze penitenti;
U, cicli, fremiti divini di mari verdi,
pace dei pascoli disseminati di animali, pace delle rughe
che l’alchimia scava nelle ampie fronti studiose;
O, Tromba suprema piena di stridori strani,
silenzi solcati dai Pianeti e dagli Angeli:
– O l’Omega e il raggio violetto dei Suoi Occhi!
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Alba
Ho abbracciato l’alba d’estate.
Nulla si moveva ancora sul frontone dei palazzi. L’acqua era morta. Le zone d’ombra non lasciavano la strada del bosco. Ho camminato, ridestando gli aliti vivi e tiepidi, e le pietre preziose guardarono, e le ali si alzarono senza rumore.
La prima impresa fu, nel sentiero già pieno di freschi e smorti fulgori, un fiore che mi disse il suo nome.
Io risi al wasserfall biondo che si scarmigliò attraverso gli abeti: sulla cima argentea riconobbi la dea.
Allora alzai ad uno ad uno i veli . Nel viale, agitando le braccia. Per la pianura, dove l’ho denunciata al gallo. Nella grande città, ella fuggiva tra i campanili e le cupole, e correndo come un mendicante sulle banchine di marmo, io la incalzavo.
In cima alla strada, vicino a un bosco di lauro, l’ho avvolta nei suoi veli raccolti, ed ho sentito un poco il suo corpo immenso. L’alba e il fanciullo caddero in fondo al bosco.
Al risveglio era mezzogiorno.
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Sensazione
D’estate, a calpestare per i sentieri andrò,
dentro il grano che punge, l’erba tenera a sera.
Sognando, la freschezza ai piedi sentirò,
lascerò che mi bagni la testa nuda il vento.
Non parlerò, smarrito ogni pensiero umano,
ma infinito nell’anima mi crescerà l’amore
e andrò come uno zingaro lontano assai lontano
per la Natura lieto come con una donna.
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Romanzo
A diciassett’anni non si può esser seri.
– Una sera, al diavolo birre e limonata
e gli splendenti lumi di chiassosi caffè!
– Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare.
Com’è gradevole il tiglio nelle sere di giugno!
L’aria è sì dolce che a palpebre chiuse
annusi il vento che risuona – la città è vicina –
e porta aromi di birra e di vino…
II
Ecco scorgersi un piccolo brano
d’azzurro scuro, incorniciato da lievi fronde,
punteggiato da una malvagia stella, che si fonde
in dolci fremiti, piccola e bianca…
Notte di giugno! Diciassett’anni! Ti lasci inebriare.
La linfa è uno champagne che dà alla testa…
Divaghi e senti un bacio sulle labbra
che palpita come una bestiolina…
III
Il cuore è un folle Robinson in un romanzo
– quando, nel pallido chiarore d’un riverbero
passa una damigella affascinante
all’ombra del colletto d’un padre tremendo…
E siccome ti trova immensamente ingenuo,
trotterellando sui suoi stivaletti
si volta, attenta ma con gesti vivaci
– e sul tuo labbro muoiono le cavatine…
IV
Sei innamorato. Fino al mese d’agosto è affittato.
Sei innamorato. I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti gli amici sono già andati, sei di cattivo gusto.
– Poi l’adorata, una sera, si degnò di scriverti!…
– Quella sera… – Ritorni ai lucenti caffè
e ordini ancora birre e limonata…
a diciassett’anni non si può esser seri,
se ci son verdi tigli lungo la passeggiata.
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L’addormentato della valle
È una gola di verzura dove un fiume canta
impigliando follemente alle erbe stracci
d’argento: dove il sole, dalla fiera montagna
risplende: è una piccola valle che spumeggia di raggi.
Un giovane soldato, bocca aperta, testa nuda,
e la nuca bagnata nel fresco crescione azzurro,
dorme; è disteso nell’erba, sotto la nuvola,
pallido nel suo verde letto dove piove la luce.
I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridente come
sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno.
O Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo.
I profumi non fanno più fremere la sua narice;
dorme nel sole, la mano sul suo petto
tranquillo. Ha due rosse ferite sul fianco destro.
Ottobre 1870
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Sognato per l’inverno
D’inverno viaggeremo in un vagone rosa
con dei cuscini blu.
Staremo bene. Un nido di folli baci si nasconde
in ogni morbido angolino,
Tu chiuderai gli occhi per non veder, dal vetro,
ghignare le ombre della sera,
collerici mostri, nera plebaglia
di lupi e di demòni.
Poi ti sentirai sfiorare lieve la guancia…
un breve bacio, come un ragnetto folle,
ti correrà sul collo…
“Cercalo!” mi dirai, chinando un poco il capo,
– ma ci vorrà del tempo per trovar la bestiolina
– che corre senza posa…
In treno, 7 ottobre ’70
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L’Eternità
È ritrovata.
Che cosa? L’Eternità.
È il mare andato via
Col sole.
Anima sentinella,
Mormoriamo la confessione
Della notte così nulla
E del giorno di fuoco.
Dagli umani suffragi,
Dai comuni slanci
Lì tu ti liberi
E voli a seconda.
Poiché soltanto da voi,
Braci di raso,
Il Dovere si esala
Senza dire: finalmente.
Là nessuna speranza,
Nessun orietur.
Scienza con pazienza,
Il supplizio è certo.
È ritrovata.
Che cosa? – l’Eternità
È il mare andato via
Col sole.
Maggio 1872
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Da Una stagione all’inferno
Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino in cui si schiudevano tutti i cuori, scorrevano tutti i vini.
Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. E l’ho trovata amara. E l’ho ingiuriata.
Mi sono armato contro la giustizia.
Sono fuggito. Streghe, miseria, odio, è a voi che è stato affidato il mio tesoro!
io riuscii a cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Su ogni cosa, per strangolarla, ho fatto il balzo silenzioso della belva feroce.
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Il battello ebbro
Appena presi a scendere lungo i Fiumi impassibili,
Mi accorsi che i bardotti non mi guidavan più:
Ignudi ed inchiodati ai pali variopinti,
I Pellirosse striduli li avevan bersagliati.
Non mi curavo più di avere un equipaggio,
Col mio grano fiammingo, col mio cotone inglese.
Quando assieme ai bardotti si spensero i clamori,
I Fiumi mi lasciarono scender liberamente.
Dentro lo sciabordare aspro delle maree,
L’altro inverno, più sordo di una mente infantile,
Io corsi! E le Penisole strappate dagli ormeggi
Non subirono mai sconquasso più trionfante.
La tempesta ha sorriso ai miei risvegli in mare.
Più lieve di un turacciolo ho danzato sui flutti
Che eternamente spingono i corpi delle vittime.
Dieci notti, e irridevo l’occhio insulso dei fari!
Più dolce che ai fanciulli qualche acida polpa,
L’acqua verde filtrò nel mio scafo di abete
E dalle macchie rosse di vomito e di vino
Mi lavò, disperdendo il timone e i ramponi.
Da allora sono immerso nel Poema del Mare
Che, lattescente e invaso dalla luce degli astri,
Morde l’acqua turchese, dentro cui, fluttuando,
Scende estatico un morto pensoso e illividito;
Dove, tingendo a un tratto l’azzurrità, deliri
E ritmi prolungati nel giorno rutilante,
Più stordenti dell’alcol, più vasti delle lire,
Fermentano i rossori amari dell’amore!
Io so i cieli che scoppiano in lampi, e so le trombe,
Le correnti e i riflussi: io so la sera, e l’Alba
Che si esalta nel cielo come colombe a stormo;
E qualche volta ho visto quel che l’uomo ha sognato!
Ho visto il sole basso, fosco di orrori mistici,
Che illuminava lunghi coaguli violacei,
Somiglianti ad attori di antichi drammi, i flutti
Che fluivano al tremito di persiane, lontano!
Sognai la notte verde dalle nevi abbagliate,
Bacio che sale lento agli occhi degli Oceani,
E la circolazione delle linfe inaudite,
E, giallo e blu, il destarsi dei fosfori canori!
Ho seguito, per mesi, i marosi che assaltano
Gli scogli, come mandrie di isterici bovini,
Stupito che i lucenti piedi delle Marie
Potessero forzare i musi degli Oceani!
Ho cozzato in Floride incredibili: fiori
Sbocciavano fra gli occhi di pantere con pelli
D’uomo! In arcobaleni come redini tesi
A glauche mandrie sotto l’orizzonte dei mari!
Ho visto fermentare gli stagni enormi, nasse
Dove frammezzo ai giunchi marcisce un Leviatano!
Frane d’acqua scuotevano le immobili bonacce,
Cateratte lontane crollavano nei baratri!
Ghiacciai, soli d’argento, flutti madreperlacei,
Cieli ardenti! Incagliavo in fondo a golfi bruni
Dove immensi serpenti mangiati dalle cimici
Cadon, da piante torte, con oscuri profumi!
Ai bimbi avrei voluto mostrare le dorate
Dell’onda cupa e azzurra, o quei pesci canori.
– Schiune di fiori, mentre salpavo, m’han cullato,
E talvolta ineffabili venti m’han dato l’ali.
Martire affaticato dai poli e dalle zone,
Il mare che piangendo mi addolciva il rullio
Faceva salir fiori d’ombra, gialle ventose,
Ed io restavo, simile a una donna in ginocchio,
Quasi isola, scuotendo sui miei bordi i litigi
E lo sterco di uccelli dagli occhi bioni, e urlanti.
Vogavo ed attraverso i miei legami fragili
Gli affogati a ritroso scendevano a dormire!
Io, battello perduto nei crini delle cale,
Spinto dall’uragano nell’etra senza uccelli,
Né i velieri anseatici, né i Monitori avrebbero
Ripescato il mio scafo ubriacato d’acqua;
Libero, fumigante, di brume viole carico,
Io che foravo il cielo rossastro come un muro
Che porti, leccornie per i buoni poeti,
Dei licheni di sole e dei mocci d’azzurro;
Io che andavo chiazzato dalle lunule elettriche,
Folle trave, scortato dagli ippocampi neri,
Quando il luglio faceva crollare a scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;
Io che tremavo udendo gemere a cento leghe
I Behemot in foia e i densi Maèlstrom,
Filando eternamente sulle acque azzurre e immobili,
Io rimpiango l’Europa dai parapetti antichi!
Ho visto gli arcipelaghi siderei e delle isole
Dai cieli deliranti aperti al vogatore:
– È in queste notti immense che tu dormi e t’esili
Stuolo d’uccelli d’oro, o Vigore futuro?
Ma basta, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro:
L’acre amore mi gonfia di stordenti torpori.
Oh, la mia chiglia scoppi! Ch’io vada in fondo al mare!
Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
Nera e gelida, quando, nell’ora del crepuscolo,
Un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
Un battello leggero come farfalla a maggio.
Non posso più, bagnato da quei languori, onde,
Filare nella scia di chi porta cotone,
Né fendere l’orgoglio dei pavesi e dei labari,
Né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni