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Mario Andrea Rigoni, nato ad Asiago nel 1948, professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Padova, studioso di Leopardi (a 29 anni pubblica un ampio e innovativo saggio su “Leopardi e l’estetizzazione dell’antico“, nucleo e presupposto dei suoi successivi studi leopardiani), amico, traduttore ed editore di E.M. Cioran, da un ventennio collaboratore delle pagine letterarie del Corriere della Sera, è anche uno dei più apprezzati scrittori italiani contemporanei di aforismi (il suo nome compare nell’Antologia di Gino Ruozzi, Scrittori italiani di aforismi).

Mario Andrea Rigoni (foto di Indira Restrepo)

Mario Andrea Rigoni (foto di Indira Restrepo)

Mario Andrea Rigoni esordisce nel 1981 con un gruppo di aforismi su Platone (sulla rivista In forma di parole diretta da Gianni Scalia), cui seguono gli aforismi di Variazioni sull’impossibile, stampati prima nella traduzione francese di Michel Orcel (alla traduzione diede il suo contributo Cioran stesso) nel 1986 (Paris, L’Alphée), poi in edizione italiana aumentata nel 1993 presso Rizzoli (ristampata nel 2006 con saggio di Tim Parks presso la casa editrice Il notes magico di Padova). Di questo libro E.M. Cioran scriverà in una lettera a Rigoni: “Ho letto con vivo interesse le sue Variazioni sull’impossibile (un bel titolo) e le consiglio di farle pubblicare, prima di tutto perchè queste riflessioni sono effettivamente molto varie, e in secondo luogo perché fanno tutt’uno grazie alla loro unità di tono, merito essenziale ed esigenza fondamentale di una raccolta di questo genere”. A proposito di Variazioni sull’impossibile (citando il primo capitolo che si intitola Platonica e raccoglie gli aforismi su Platone precedentemente pubblicati nel 1981) Rigoni scriverà lucidamente: “Sono relitti di un piccolo naufragio gnoseologico, ma rivendicati nello stesso tempo come sole forme possibili dell’autentico o del plausibile”.

Il secondo libro di aforismi pubblicato da Rigoni si intitola Elogio dell’America. Come per il libro precedente, viene pubblicato prima in lingua francese con il titolo di Eloge de l’Amérique (“perché lei conosce mirabilmente il francese, ogni volta che ricevo una sua traduzione, respiro” gli scrive Cioran), nel 2002 presso le Editions Capucins e quindi a Roma presso Liberal Edizioni nel 2003. Nella prefazione al testo in italiano Ruggero Guarini scrive “Un elogio dell’America fatto di questi tempi da uno scrittore italiano sembrerebbe un caso singolare e quasi scandaloso. Ancor più straordinario e scandaloso potrebbe sembrare che a scriverlo sia stato un letterato che vedendo, giustamente, nella leopardiana “strage delle illusioni” l’evento istitutivo della modernità, non può naturalmente misconoscere l’ufficio dell’illusione nella nascita e nello slancio dello spirito americano. Eppure è proprio al suo venerato Leopardi che Rigoni potrebbe chiedere di giustificare il suo amore per gli States. Giacché quel critico beffardo di tutte le umane chimere non soltanto le disse necessarie alla vita, ma in un memorabile passo giunse persino a invocarne il ritorno: ‘O l’immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita organica e mobile […] o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto’. A proposito di Elogio dell’America Rigoni scriverà: “Sono stato indotto alla scelta della forma frammentaria sia perché questo paese è un vero mosaico di paesaggi, di popoli e di esperimenti, e di situazioni renitenti a una sintesi compiuta, sia perché il colpo d’occhio, tradotto nella notazione insieme rapida ed emblematica, mi sembrava il mezzo più conveniente per evocare i tratti di una tale grandiosa complessità.”

Il terzo libro di aforismi di Mario Andrea Rigoni è Vanità, pubblicato da Nino Aragno Editore sul finire del 2010 (Aragno, che nel 2007 ha pubblicato Hommelettes del ticinese Mario Postizzi, si sta confermando come uno degli editori italiani più attenti al genere breve). Come scrive Mario Andrea Rigoni nell’ultimo aforisma della sezione centrale del libro: “Che cosa mi ha spinto a scrivere questo libretto? Una doppia vanità: la vanità di scrivere e la vanità di scrivere sulla vanità. Dimenticavo un’altra ragione. Il desiderio di erigere un piccolo muro, per quanto vano, contro quella stessa vanità.”

Vanità è un libro di aforismi sul tema della vanità: “La storia della vanità è la storia del mondo” recita l’incipit del libro. La silloge di aforismi a tema è un genere piuttosto frequentato nell’aforisma contemporaneo e gli esempi sono molti.

Vanità è un libro diviso in quattro sezioni (Metafisica della vanità, Con Leopardi, Nel regno di Clio e Piccola antologia letteraria della vanità). Mentre nelle prime tre sezioni sono raccolti gli aforismi di Rigoni, nell’ultima c’è una piccola antologia di aforismi sulla vanità che comincia dai testi dell’Epopea di Gilgamesh e arriva fino a E.M. Cioran e Claude Lévi-Strauss (il modello della raccolta antologica all’interno di una silloge aforistica è un modello piuttosto usato nell’aforisma contemporaneo.

Come scrive Paolo Lagazzi sulla Gazzetta di Parma, “nella sua nuova, bellissima raccolta di meditazioni “Vanità”, oscillando tra l’epigramma, il paradosso, la chiacchiera e il calembour, Rigoni riparte proprio dal vuoto per osservarlo nel recto e nel verso, come Vanitas Vanitatum e come fonte delle maschere mondane tese ad ammantare il nulla di colori sgargianti, rutilanti, iperbolici. Tutti, o quasi, i comportamenti sociali hanno, secondo Rigoni, la loro tragica e ridicola radice in un sentimento d’insensatezza che, ammantato di piume screziate come quelle del pavone, addobbato da una profusione di cose e parole inutili, tanto più si confessa quanto più vorrebbe celarsi. L’orchestra del Titanic che continua a suonare mentre la nave affonda “è più che l’immagine di un’epoca: è una metafora della storia, della vita stessa, di ciascuno e di tutti”.

Mario Andrea Rigoni non è solo uno dei più apprezzati scrittori di aforismi, ma è anche un brillante teorico del genere. E’ curatore, insieme a Raoul Bruni, del libro “La brevità felice. Contributi alla teoria e alla storia dell’aforisma” (2006), mentre nel libro “Teoria e storia dell’aforisma” (Mondadori 2004), che raccoglie i contributi sull’aforisma da parte di diversi esperti, c’è un capitolo che si intitola Autoritratto di un aforista ed è piccolo saggio sull’aforisma scritto proprio da Mario Andrea Rigoni.

Le osservazioni di Rigoni sull’aforisma sono varie ed illuminanti. “La domanda perchè e come si scelga di scrivere per frammenti o aforismi contiene un certo grado di indiscrezione ed è anche in contrasto con lo spirito laconico del genere di cui si parla” esordisce Rigoni in Autoritratto di un aforista. Dopo le riflessioni sulla filosofia di Platone, una figura che insieme a Leopardi e Cioran è ricorrente nell’opera di Rigoni (“quando mi accinsi a scrivere un saggio su Platone, mi accorsi che il lavoro restava ostinatamente frammentario e incompiuto proprio per la difficoltà obiettiva che la conoscenza platonica nei suoi vari aspetti potesse sigillarsi in una totalità coerente e conclusa”), Rigoni traccia delle considerazioni davvero acute sul frammento moderno: “Schlegel affermava che le opere antiche sono frammentarie per le distruzioni operate dal tempo. Quelle moderne lo sono al loro stesso nascere. Nietzsche aggiungeva che ‘la volontà di sistema è una mancanza di onestà’ e professava l’ambizione di dire in dieci proposizioni quello che ogni altro dice in un libro – quello che ogni altro non dice in un libro. In questo modo egli andava al cuore stesso dell’aforisma, enunciando non solo un generico ideale di concisione stilistica, ma anche un preciso intento di illuminare, come in un lampo, delle verità che l’occhio comune sfugge, contrasta o maschera. Lo scrittore di aforismi, per quanto sia un devoto o addirittura un fanatico dello stile, è animato innazitutto dalla preoccupazione, anzi dall’ossessione, della verità – fosse pure la verità che non esiste nessuna verità. E’ questo che in ogni caso fa dello scrittore di aforismi un moralista malgré lui. D’altra parte egli rifiuta di abbassarsi alla spiegazione non solo per ragioni di politesse e di eleganza, ma anche perchè ritiene che l’intuizione sia superiore alla dimostrazione e al discorso”. E ancora Rigoni che scrive: “L’aspetto che intendo mettere in luce è che l’aforisma, come forma di stile e di pensiero, è per natura adialettico o antidialettico”. L’ultima parte di questo meraviglioso saggio sull’aforisma (di cui ho estratto solo alcune parti) contiene un autoritratto di Rigoni aforista con un inedito parallelo tra la sua struttura psico-fisica e la vocazione aforistica: “Per quanto mi riguarda sento nell’andamento sincopato della scrittura aforistica il ritmo stesso della mia personalità, incapace o insofferente dello sviluppo regolare e continuo, incline invece all’esplosione e dunque sempre divisa tra la stasi e la frenesia. Non intendo generalizzare i miei tratti individuali, ma mi riesce difficile immaginare uno scrittore di aforismi flemmatico e brachicardico. In ogni caso io sono il contrario. La nervosità della mia struttura psico-fisica si riflette in tutto quello che sono e che faccio. Non posso camminare lentamente neppure se non devo andare da nessuna parte. Non sono un fumatore di pipa, un adepto del suo tranquillo cerimoniale, ma un innamorato della sigaretta, maneggevole e rapida, convulsa e intermittente. Mi piace il poker, non il bridge; l’azzardo, più che il calcolo e la riflessione; nel calcio praticato da ragazzo ero un’ala, in ogni caso un attaccante; nell’atletica ero un velocista, non un fondista.”

Per delineare compiutamente il ritratto di Mario Andrea Rigoni, scrittore di aforismi, presento al lettore del blog una breve scelta di aforismi tratti da Vanità (Nino Aragno editore, 2010) e da Variazioni sull’impossibile (Rizzoli 1993, Il notes magico 2006):

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Vanità, 2010

Il mondo vegetale e animale, ma anche quello minerale, è tutto uno sfoggio di vanità, una messa in scena grandiosa e abbagliante di processi, di forme e di colori al fine di addobbare, allontanare e scongiurare il nulla. Ostentarsi è una vocazione primaria di tutto ciò che esiste.

Il pavone è stato spesso assunto come simbolo della natura, della superba e screziata bellezza del suo manto visibile: “una mappa dell’universo” diceva ancora Flannery O’ Connor.
Ma, non appena questo uccello dal piumaggio meraviglioso apre il becco, il suono che ne esce è un gracchiare sinistro…

La festa prima della fine, l’orchestra che suona e non smette di suonare, mentre il Titanic affonda, è più che l’immagine di un’epoca: è la metafora della storia, della vita stessa, di ciascuno e di tutti.

Sarà un caso se, in molte lingue europee, il pronome di prima persona è rappresentato graficamente da un’asta verticale? Non si dovrà leggere in questo elementare iconismo una volontà del soggetto di ergersi, di segnalarsi, di inalberare e sventolare un patetico vessillo per non essere travolto dalla marea dell’anonimo?.

E’ vero che alcuni amano starsene appartati e inosservati: allo scopo di essere, per questo, finalmente notati.

Nella Recherche lo snobismo si estende fino alla guardiana del padiglione dei gabinetti pubblici sugli Champs-Elysées. Li chiama “i suoi salotti”, dichiarando di scegliere sempre i clienti che possono esservi ammessi: infatti, sotto gli occhi del narratore, rifiuta sdegnata la richiesta di una povera donna malvestita.

“Non importa che se ne parli male, purché se ne parli” si sente dire a proposito di un libro, di uno spettacolo o di qualsiasi iniziativa. Un vizio comune e antico, già denunciato da Montaigne: “Ci curiamo più che si parli di noi che di come se ne parla; e ci basta che il nostro nome corra sulla bocca degli uomini, in qualsiasi modo ciò avvenga”. Mai tuttavia questa stupida ambizione aveva raggiunto la forma parossistica con la quale imperversa nella nostra società.

Vanità e cinismo. Il piacere di essere ricchi, mi diceva un vecchio signore, non consiste solo nell’essere ricchi, ma anche nel vedere che gli altri sono poveri.

Come la verità è nuda, la vanità è sempre vestita, anzi larvata: giacché se fosse nuda, che cosa avrebbe da mostrare?

Il cimitero è un osservatorio privilegiato dell’insaziabile vanità umana, perché vi si vede, a leggere certe lapidi, che essa scavalca la cenere e la polvere, proiettando titoli e meriti e vanti, oltre l’ultima, derisoria frontiera.

La nostra nullità dovrebbe moderare la nostra ambizione; d’altronde questa nasce proprio da quella.

Tutti, tutti, anche i più profondi e disincantati filosofi moderni, hanno cercato insistemente, pateticamente, il successo. Nietzsche elemosinava la considerazione delle fruttivendole non meno del riconoscimento dei grandi; Schopenhauer, all’Università, invidiava i duecento studenti che affollavano il corso di Hegel quando lui ne aveva cinque.
Se queste grandi figure suscitano la nostra indulgenza tanto quanto la nostra sorpresa, non è solo per il merito delle loro opere, del quale erano consapevoli quanto noi, ma per l’infantile, commovente ingenuità del loro atteggiamento, che li restituisce alla debolezza umana, a una debolezza perfino troppo umana.

Nelle attuali enciclopedie letterarie si può notare che infime figure dell’università, della critica e del giornalismo occupano lo stesso spazio di Gorgia o di Marco Aurelio, se non anche uno maggiore!

Non è uno dei molti aspetti della follia umana – anche se certamente il più innocuo – che nel mondo, ogni trenta secondi, venga pubblicato un nuovo libro?
Più che mai occorrerebbe di tanto in tanto imporre un silenzio pitagorico.

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Variazioni sull’impossibile (1993, 2006)

Il divino è più prossimo al minerale che all’uomo: ricordarsi che sul trono dell’Apocalisse siede una pietra.

Bellezza delle piante – i soli esseri viventi in questo universo che non producano rumore né rifiuti.

Non si è mai spiegato il successo di Cristo e del Vangelo nel mondo antico come un exploit retorico, una vittoria della persuasione, un’irresistibile fascinazione teatrale, al cui confronto la Sofistica stessa era un’arte da principianti.

La violenza non è in noi: la violenza è nel divenire. Quando qualcosa si muove, siamo già in presenza di una catastrofe.

La volgarità di un’idea si misura dal suo bisogno di proselitismo.

Si impara più da una visita a un mattatoio che da venticinque secoli di esperienza filosofica.

Lo spirito e la forza di una civiltà sono tutt’altro che indifferenti al materiale cui si affidano: l’antico mondo greco poteva imprimersi soltanto nel bronzo, nell’avorio, nell’oro e nel marmo; il nostro nella plastica, nella celluloide e nella carta.

A noi, che siamo nati dopo la fine di tutto, non resta nemmeno la freschezza del decadere.

La creazione si sarebbe dovuta fermare al regno vegetale. L’animale è per natura assassino, l’animale mangia.

E’ uno scrittore vero, tutto quello che dice ha il suono delle cose e della vita: come non riconoscergli l’autenticità più intatta? E tuttavia: che cosa resterebbe della sua anima senza il belletto della retorica, che cosa del suo pensiero senza la brillante violenza delle metafore e l’abile estorsione del ritmo? Nessuna verità, nemmeno quella evengelica, ha mai potuto imporsi senza un colpo di mano stilistico.

Forse non c’è volontà di liberarsi dall’inganno che non obbedisca a un più sottile e segreto bisogno di inganno.

Per capire il successo, altrimenti inspiegabile, di certi individui, bisogna sapere che esiste un tipo del tutto particolare di genio: il genio della mediocrità.

Vedere senza sguardo: non sarebbe questo la liberazione dal dolore, non sarebbe questo la felicità?

La bontà, è indubbio, vale molto di più dell’intelligenza. Peccato che non abbia fascino; che non esista, neanche come formula linguistica, una bontà eseducente.

Non è detto che il cielo si rifletta meno bene in una pozzanghera o in un canale che in un limpido stagno o in un mare trasparente. Alla profondità dell’etereo giova la profondità del torbido.

Il rispetto dell’espressione non è solo un fatto estetico, ma anche morale. Chi è capace di compromettere la lingua è capace di qualsiasi cosa.

L’avvenire non può essere sostanzialmente altro dal passato; lo dimostra il fatto che quest’ultimo è già stato anch’esso, per milioni di volte e per milioni di uomini, un avvenire… La storia è una palude irredimibile. Che il futuro sia migliore non solo del passato o del presente, ma del tempo stesso: ecco l’assurda speranza su cui si fonda ogni utopia.

Sono tutte illusioni, siamo d’accordo, ma le illusioni non sono tutte uguali: da quella che scegli si capisce chi sei.

A differenza del talento o del genio la stupidità non può essere nascosta: appartiene alla sua natura l’urgenza di manifestarsi.

Ciò che sorprende e rattrista di più nella pazzia è che essa, nonostante il luogo comune, non attua alcuna evasione o libertà dal reale: al contrario vi soggiace supinamente; ne subisce – isolati e ingigantiti – alcuni elementi, alcuni schemi, che non cessa di ripetere fino alla monotonia, fino all’ossessione, fino appunto alla pazzia.

Per staccarsi dagli altri animali, per sovrastarli e dominarli, l’uomo doveva creare in sé un’altra belva, più segreta, più raffinata e più feroce, della quale tuttavia sarebbe stato non meno vittima che padrone: così è nata la psiche

Gli antichi conoscevano il pericolo che si annida nella prosperità, temevano “l’invidia degli dei”. Io non tremo mai così tanto come quando sono felice.

A differenza della virtù, che si appaga di se stessa, il vizio è per natura progressivo, chiede di superare nuovi limiti: il vizio è “idealista”

One Comment

  • Luca Ormelli ha detto:

    Un intervento puntuale Fabrizio del quale io (come confido molti altri) ti sono riconoscente. E’ opportuno illuminare la figura di Rigoni di luce propria e non solamente della riflessione del ben più notorio studioso. Luca