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Frasi, aforismi e pensieri di Giacomo Leopardi

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I Pensieri di Giacomo Leopardi, 111 frammenti di una lunghezza variabile tra una riga e mezza pagina, sono apparsi postumi nel 1845, ma erano stati scelti e ordinati dallo stesso autore in vita. Ad essi accenna Giacomo Leopardi in una lettera, poco prima della morte, come a un “volume inedito di Pensieri sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta in Società”. Molti di questi pensieri sono estratti dallo Zibaldone, altri sono del tutto nuovi.

Presento una raccolta di frasi e aforismi tratti dai Pensieri. Accanto a ogni pensiero c’è la numerazione originale. Tra i temi correlati si veda Frasi, aforismi e massime di Francois de La Rochefoucauld e Le frasi e i pensieri più celebri di Voltaire.

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Frasi, aforismi e pensieri di Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi

La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza.
(VI)

Chi contro all’opinione d’altri ha predetto il successo di una cosa nel modo che poi segue, non si pensi che i suoi contraddittori, veduto il fatto, gli dieno ragione, e lo chiamino più savio o più intendente di loro: perché o negheranno il fatto, o la predizione, o allegheranno che questa e quello differiscano nelle circostanze, o in qualunque modo troveranno cause per le quali si sforzeranno di persuadere a se stessi e agli altri che l’opinione loro fu retta, e la contraria torta.
(IX)

La maggior parte delle persone che deputiamo a educare i figliuoli, sappiamo di certo non essere state educate. Né dubitiamo che non possano dare quello che non hanno ricevuto, e che per altra via non si acquista.
(X)

V’è qualche secolo che, per tacere del resto, nelle arti e nelle discipline presume di rifar tutto, perché nulla sa fare.
(XI)

Colui che con fatiche e con patimenti, o anche solo dopo molto aspettare, ha conseguito un bene, se vede altri conseguire il medesimo con facilità e presto, in fatti non perde nulla di ciò che possiede, e nondimeno tal cosa è naturalmente odiosissima, perché nell’immaginativa il bene ottenuto scema a dismisura se diventa comune a chi per ottenerlo ha speso e penato poco o nulla. Perciò l’operaio della parabola evangelica si duole come d’ingiuria fatta a se, della mercede uguale alla sua, data a quelli che avevano lavorato meno; e i frati di certi ordini hanno per usanza di trattare con ogni sorte di acerbità i novizi, per timore che non giungano agiatamente a quello stato al quale essi sono giunti con disagio.
(XII)

Come le prigioni e le galee sono piene di genti, a dir loro, innocentissime, così gli uffizi pubblici e le dignità d’ogni sorte non sono tenute se non da persone chiamate e costrette a ciò loro mal grado. È quasi impossibile trovare alcuno che confessi di avere o meritato pene che soffra, o cercato né desiderato onori che goda: ma forse meno possibile questo, che quello.
(XVII)

Io vidi in Firenze uno che strascinando, a modo di bestia da tiro, come colà è stile, un carro colmo di robe, andava con grandissima alterigia gridando e comandando alle persone di dar luogo; e mi parve figura di molti che vanno pieni d’orgoglio, insultando agli altri, per ragioni non dissimili da quella che causava l’alterigia in colui, cioè tirare un carro.
(XVIII)

Parlando, non si prova piacere che sia vivo e durevole, se non quanto ci è permesso discorrere di noi medesimi, e delle cose nelle quali siamo occupati, o che ci appartengono in qualche modo. Ogni altro discorso in poca d’ora viene a noia; e questo, ch’è piacevole a noi, è tedio mortale a chi l’ascolta. Non si acquista titolo di amabile, se non a prezzo di patimenti: perché amabile, conversando, non è se non quegli che gratifica all’amor proprio degli altri, e che, in primo luogo, ascolta assai e tace assai, cosa per lo più noiosissima; poi lascia che gli altri parlino di se e delle cose proprie quanto hanno voglia; anzi li mette in ragionamenti di questa sorte, e parla egli stesso di cose tali; finché si trovano, al partirsi, quelli contentissimi di se, ed egli annoiatissimo di loro. Perché, in somma, se la miglior compagnia è quella dalla quale noi partiamo più soddisfatti di noi medesimi, segue ch’ella è appresso a poco quella che noi lasciamo più annoiata. La conchiusione è, che nella conversazione, e in qualunque colloquio dove il fine non sia che intertenersi parlando, quasi inevitabilmente il piacere degli uni è noia degli altri, né si può sperare se non che annoiarsi o rincrescere, ed è gran fortuna partecipare di questo e di quello ugualmente.
(XXI)

odi non sieno cominciate dalla sua propria bocca. Tanto è l’egoismo, e tanta l’invidia e l’odio che gli uomini portano gli uni agli altri, che volendo acquistar nome, non basta far cose lodevoli, ma bisogna lodarle, o trovare, che torna lo stesso, alcuno che in tua vece le predichi e le magnifichi di continuo, intonandole con gran voce negli orecchi del pubblico, per costringere le persone sì mediante l’esempio, e sì coll’ardire e colla perseveranza, a ripetere parte di quelle lodi. Spontaneamente non isperare che facciano motto, per grandezza di valore che tu dimostri, per bellezza d’opere che tu facci. Mirano e tacciono eternamente; e, potendo, impediscono che altri non vegga. Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia.
Ancora in questa parte il mondo è simile alle donne: con verecondia e con riserbo da lui non si ottiene nulla.
(XXIV)

Nessuno è sì compiutamente disingannato del mondo, né lo conosce sì addentro, né tanto l’ha in ira, che guardato un tratto da esso con benignità, non se gli senta in parte riconciliato; come nessuno è conosciuto da noi sì malvagio, che salutandoci cortesemente. non ci apparisca meno malvagio che innanzi. Le quali osservazioni vagliono a dimostrare la debolezza dell’uomo, non a giustificare né i malvagi né il mondo.
(XXV)

Nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita.
(XXVII)

Il genere umano e, dal solo individuo in fuori, qualunque minima porzione di esso, si divide in due parti: gli uni usano prepotenza, e gli altri la soffrono. Né legge né forza alcuna, né progresso di filosofia né di civiltà potendo impedire che uomo nato o da nascere non sia o degli uni o degli altri, resta che chi può eleggere, elegga. Vero è che non tutti possono, né sempre
(XXVIII)

In ogni paese i vizi e i mali universali degli uomini e della società umana, sono notati come particolari del luogo. Io non sono mai stato in parte dov’io non abbia udito: qui le donne sono vane e incostanti, leggono poco, e sono male istruite; qui il pubblico è curioso de’ fatti altrui, ciarliero molto e maldicente; qui i danari, il favore e la viltà possono tutto; qui regna l’invidia, e le amicizie sono poco sincere; e così discorrendo; come se altrove le cose procedessero in altro modo. Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente.
(XXXI)

Nessuna qualità umana è più intollerabile nella vita ordinaria, né in fatti tollerata meno, che l’intolleranza.
(XXXVII)

Cosa odiosissima è il parlar molto di se. Ma i giovani, quanto sono più di natura viva, e di spirito superiore alla mediocrità, meno sanno guardarsi da questo vizio: e parlano delle cose proprie con un candore estremo, credendo per certissimo che chi ode, le curi poco meno che le curano essi. E così facendo, sono perdonati; non tanto a contemplazione dell’inesperienza, ma perché è manifesto il bisogno che hanno d’aiuto, di consiglio e di qualche sfogo di parole alle passioni onde è tempestosa la loro età. Ed anco pare riconosciuto generalmente che ai giovani si appartenga una specie di diritto di volere il mondo occupato nei pensieri loro.
(XL)

Gran rimedio della maldicenza, appunto come delle afflizioni d’animo, è il tempo. Se il mondo biasima qualche nostro istituto o andamento, buono o cattivo, a noi non bisogna altro che perseverare. Passato poco tempo, la materia divenendo trita, i maledici l’abbandonano, per cercare delle più recenti. E quanto più fermi ed imperturbati ci mostreremo noi nel seguitar oltre, disprezzando le voci, tanto più presto ciò che fu condannato in principio, o che parve strano, sarà tenuto per ragionevole e per regolare: perché il mondo, il quale non crede mai che chi non cede abbia il torto, condanna alla fine se, ed assolve noi. Onde avviene, cosa assai nota, che i deboli vivono a volontà del mondo, e i forti a volontà loro.
(XLV)

L’uomo è condannato o a consumare la gioventù senza proposito, la quale è il solo tempo di far frutto per l’età che viene, e di provvedere al proprio stato, o a spenderla in procacciare godimenti a quella parte della sua vita, nella quale egli non sarà più atto a godere.
(XLVII)

Una donna è derisa se piange di vero cuore il marito morto, ma biasimata altamente se, per qualunque grave ragione o necessità, comparisce in pubblico, o smette il bruno, un giorno prima dell’uso. È assioma trito, ma non perfetto, che il mondo si contenta dell’apparenza. Aggiungasi per farlo compiuto, che il mondo non si contenta mai, e spesso non si cura, e spesso è intollerantissimo della sostanza. Quell’antico si studiava più d’esser uomo da bene che di parere, ma il mondo ordina di parere uomo da bene, e di non essere.
(LV)

Gli uomini si vergognano, non delle ingiurie che fanno, ma di quelle che ricevono. Però ad ottenere che gl’ingiuriatori si vergognino, non v’è altra via, che di rendere loro il cambio.
(LVII)

I timidi non hanno meno amor proprio che gli arroganti; anzi più, o vogliamo dire più sensitivo; e perciò temono: e si guardano di non pungere gli altri, non per istima che né facciano maggiore che gl’insolenti e gli arditi, ma per evitare d’esser punti essi, atteso l’estremo dolore che ricevono da ogni puntura.
(LVIII)

Uscendo della gioventù, l’uomo resta privato della proprietà di comunicare e, per dir così, d’ispirare colla presenza se agli altri; e perdendo quella specie d’influsso che il giovane manda ne’ circostanti, e che congiunge questi a lui, e fa che sentano verso lui sempre qualche sorte d’inclinazione, conosce, non senza un dolore nuovo, di trovarsi nelle compagnie come diviso da tutti, e intorniato di creature sensibili poco meno indifferenti verso lui che quelle prive di senso.
(LXI)

Nessuna compagnia è piacevole al lungo andare, se non di persone dalle quali importi o piaccia a noi d’essere sempre più stimati. Perciò le donne, volendo che la loro compagnia non cessi di piacere dopo breve tempo, dovrebbero studiare di rendersi tali, che potesse essere desiderata durevolmente la loro stima.
(LXV)

Poco propriamente si dice che la noia è mal comune. Comune è l’essere disoccupato, o sfaccendato per dir meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile. La massima parte degli uomini trova bastante occupazione in che che sia, e bastante diletto in qualunque occupazione insulsa; e quando è del tutto disoccupata, non prova perciò gran pena. Di qui nasce che gli uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia, e fanno il volgo talvolta maravigliare e talvolta ridere, quando parlano della medesima e se ne dolgono con quella gravità di parole, che si usa in proposito dei mali maggiori e più inevitabili della vita.
(LXVII)

La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.
(LXVIII)

In più altri modi la donna è come una figura di quello che è il mondo generalmente: perché la debolezza è proprietà del maggior numero degli uomini; ed essa, verso i pochi forti o di mente o di cuore o di mano, rende le moltitudini tali, quali sogliono essere le femmine verso i maschi. Perciò quasi colle stesse arti si acquistano le donne e il genere umano: con ardire misto di dolcezza, con tollerare le ripulse, con perseverare fermamente e senza vergogna, si viene a capo, come delle donne, così dei potenti, dei ricchi, dei più degli uomini in particolare, delle nazioni e dei secoli. Come colle donne abbattere i rivali, e far solitudine dintorno a se, così nel mondo è necessario atterrare gli emuli e i compagni, e farsi via su pei loro corpi: e si abbattono questi e i rivali colle stesse armi; delle quali due sono principalissime, la calunnia e il riso. Colle donne e cogli uomini riesce sempre a nulla, o certo è malissimo fortunato, chi gli ama d’amore non finto e non tepido e chi antepone gl’interessi loro ai propri. E il mondo è, come le donne, di chi lo seduce, gode di lui, e lo calpesta.
(LXXV)

Nulla è più raro al mondo, che una persona abitualmente sopportabile.
(LXXVI)

Rivedendo in capo di qualche anno una persona ch’io avessi conosciuta giovane, sempre alla prima giunta mi è paruto vedere uno che avesse sofferto qualche grande sventura L’aspetto della gioia e della confidenza non è proprio che della prima età: e il sentimento di ciò che si va perdendo, e delle incomodità corporali che crescono di giorno in giorno, viene generando anche nei più frivoli o più di natura allegra, ed anco similmente nei più felici, un abito di volto ed un portamento, che si chiama grave, e che per rispetto a quello dei giovani e dei fanciulli, veramente è tristo.
(LXXX)

Se quei pochi uomini di valor vero che cercano gloria, conoscessero ad uno ad uno tutti coloro onde è composto quel pubblico dal quale essi con mille estremi patimenti si sforzano di essere stimati, è credibile che si raffredderebbero molto nel loro proposito, e forse che l’abbandonerebbero. Se non che l’animo nostro non si può sottrarre al potere che ha nell’immaginazione il numero degli uomini: e si vede infinite volte che noi apprezziamo, anzi rispettiamo, non dico una moltitudine, ma dieci persone adunate in una stanza, ognuna delle quali da se reputiamo di nessun conto.
(LXXXIII)

Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli.
(LXXXVI)

Chi viaggia molto, ha questo vantaggio dagli altri, che i soggetti delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che esse acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri non è dato loro se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto, ha questo svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in qualche parte presenti, poiché presenti sono i luoghi ai quali ogni sua memoria si riferisce.
(LXXXVII)

Chi comunica dopo cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perché l’uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini. E se uno che sia tale, si ritira dalla società, perde nel ritiro la misantropia.
(LXXXIX)

Io conobbi già un bambino il quale ogni volta che dalla madre era contrariato in qualche cosa, diceva: ah, ho inteso, ho inteso: la mamma è cattiva. Non con altra logica discorre intorno ai prossimi la maggior parte degli uomini, benché non esprima il suo discorso con altrettanta semplicità.
(XC)

Chi t’introduce a qualcuno, se vuole che la raccomandazione abbia effetto, lasci da canto quelli che sono tuoi pregi più reali e più propri, e dica i più estrinseci e più appartenenti alla fortuna. Se tu sei grande e potente nel mondo, dica grande e potente; se ricco, dica ricco; se non altro che nobile, dica nobile: non dica magnanimo, né virtuoso, né costumato, né amorevole, né altre cose simili, se non per giunta, ancorché siano vere ed in grado insigne. E se tu fossi letterato, e come tale fossi celebre in qualche parte, non dica dotto, né profondo, né grande ingegno, né sommo; ma dica celebre: perché, come ho detto altrove, la fortuna è fortunata al mondo, e non il valore.
(XCI)

Né sono gli uomini in ciò senza qualche scusa: perché raro è chi veramente abbia più di quello che gli bisogna; dipendendo i bisogni in modo quasi principale dalle assuefazioni, ed essendo per lo più proporzionate alle ricchezze le spese, e molte volte maggiori. E quei pochi che accumulano senza spendere, hanno questo bisogno di accumulare; o per loro disegni, o per necessità future o temute. Né vale che questo o quel bisogno sia immaginario; perché troppo poche sono le cose della vita che non consistano o del tutto o per gran parte nella immaginazione.
(XCV)

L’uomo onesto, coll’andar degli anni, facilmente diviene insensibile alla lode e all’onore, ma non mai, credo, al biasimo né al disprezzo. Anzi la lode e la stima di molte persone egregie non compenseranno il dolore che gli verrà da un motto o da un segno di noncuranza di qualche uomo da nulla. Forse ai ribaldi avviene al contrario; che, per essere usati al biasimo, e non usati alla lode vera, a quello saranno insensibili, a questa no, se mai per caso ne tocca loro qualche saggio.
(XCVI)

Gli anni della fanciullezza sono, nella memoria di ciascheduno, quasi i tempi favolosi della sua vita, come, nella memoria delle nazioni, i tempi favolosi sono quelli della fanciullezza delle medesime.
(CII)

Le lodi date a noi, hanno forza di rendere stimabili al nostro giudizio materie e facoltà da noi prima vilipese, ogni volta che ci avvenga di essere lodati in alcuna di così fatte.
(CIII)

L’astuzia, la quale appartiene all’ingegno, è usata moltissime volte per supplire la scarsità di esso ingegno, e per vincere maggior copia del medesimo in altri.
(CV)

L’uomo è quasi sempre tanto malvagio quanto gli bisogna. Se si conduce dirittamente, si può giudicare che la malvagità non gli è necessaria. Ho visto persone di costumi dolcissimi, innocentissimi, commettere azioni delle più atroci, per fuggire qualche danno grave, non evitabile in altra guisa.
(CIX)

È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che vagliono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore.
(CX)

Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare.
(CXI)