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Frasi, citazioni, aforismi di Giovanni Verga

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Giovanni Verga (Vizzini, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) scrittore e drammaturgo italiano, è considerato il maggior esponente della corrente letteraria del verismo.

Nelle pagine di Verga non ci sono né eroi, né vincitori. È una epopea degli umili, dei vinti quella che affiora nelle opere dello scrittore siciliano. Grazie alla poetica verista, i “poveri cristi”, i poveri diavoli, i “senza storia” divengono protagonisti della vicenda umana. Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Padron ‘Ntoni sono gli anti-eroi di una epica contadina segnata da privazioni e sofferenze, ma, soprattutto, da una fame atavica.

Presento una raccolta di frasi, citazioni, aforismi di Giovanni Verga. Tra i temi correlati si veda Frasi, citazioni e aforismi di Alessandro Manzoni, Frasi, citazioni e aforismi di Luigi Pirandello e Frasi, citazioni e aforismi di Gabriele D’Annunzio.

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Frasi, citazioni, aforismi di Giovanni Verga

I Malavoglia (1881)

Soltanto il Mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il Mare non ha paese nemmeno Lui, ed è di tutti quelli che lo sanno Ascoltare.

I giovani hanno la memoria corta, e hanno gli occhi per guardare soltanto a levante; e a ponente non ci guardano altro che i vecchi, quelli che hanno visto tramontare il sole tante volte.

Il matrimonio è come una trappola per topi; quelli che son dentro vorrebbero uscirne, e gli altri ci girano intorno per entrarvi.

Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.

Per menare il remo bisogna che le cinque dita della mano si aiutino l’un l’altro.

Almeno voleva sapere perché al mondo ci doveva essere della gente che se la gode senza far nulla, e nasce colla fortuna nei capelli, e degli altri che non hanno niente, e tirano la carretta coi denti per tutta la vita?

Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristamente il capo: – «Ad ogni uccello, suo nido è bello». Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene.
– Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! rispondeva ‘Ntoni. Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani.
– Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. «Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova». Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! «Il buon pilota si prova alle burrasche». Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos’hai!

Così dicendo si fregava le mani e rideva, ma colle labbra e non col cuore.

I vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro.

Il mondo è pieno di guai, chi ne ha pochi e chi ne ha assai.

Pari con pari e statti coi tuoi.

I ragazzi crescono, e ci spingono per le spalle nella fossa.

Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante.

Il mondo è tondo, chi nuota e chi va a fondo.

Certuni non sanno star soli neppure in paradiso.

Più ricco è in terra chi meno desidera.

Tra suocera e nuora ci si sta in malora.

Le donne bisogna lasciarle dire, e far le cose di nascosto.

Chi ha il cuore contento sempre canta.

Un pesce fuori dall’acqua non sa starci.

Quando uno non riesce ad acchiappare la fortuna è un minchione.

Chi ha roba in mare non ha nulla.

Suocera e nuora nella stessa casa sono come due mule selvatiche nella stessa stalla.

I poveretti sono come le pecore, vanno sempre con gli occhi chiusi dove vanno gli altri.

Bisogna rompere la pentola per aggiustarla.

Chi fa l’oste deve far buon viso a tutti.

Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura.

Amici con tutti, e fedeli con nessuno.

Chi ha fatto il pasticcio se lo mangi.

Meglio contentarsi che lamentarsi.

A buon cavallo non gli manca sella.

Roba rubata non dura.

Per far da papa bisogna saper far da sagrestano.

A chi vuol bene, Dio manda pene.

La cavezza è fatta per il mulo.

Le cose lunghe diventano serpi.

Senza pilota barca non cammina.

Bocca amara sputa fiele.

I pesci del mare son destinati a chi se l’ha da mangiare.

La fame fa uscire il lupo dal bosco.

Amore di soldato poco dura, a tocco di tamburo addio signora.

Necessità abbassa nobiltà.

Chi dà acconto non è cattivo pagatore.

Al servo pazienza, al padrone prudenza.

Ventre affamato non sente ragione.

Fa’ il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai.

Amare la vicina è un gran vantaggio, si vede spesso e non si fa viaggio.

Ognuno tiene gli occhi addosso a quel che gli preme.

Beato chi muore nel proprio letto.

Mare bianco, scirocco in campo.

Il mare è amaro, ed il marinaio muore in mare.

Chi piglia bellezze piglia corna.

Il tempo si porta via le cose brutte come le cose buone.

Chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno.

Rubare ai ladri non è stato mai peccato.

La forca è fatta pel disgraziato.

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia, si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole
(incipit I Malavoglia)

A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. “Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta” pensò ‘Ntoni “e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui.” Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: “Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.
(Explicit I Malavoglia)

Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono.
(Introduzione a I Malavoglia)

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Vita dei campi (1880)

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
(Rosso Malpelo)

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro.
(Rosso Malpelo)

Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – perché allora la sciara sembra più bella e desolata.
– Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, – pensava Malpelo, – dovrebbe essere buio sempre e da per tutto.
(Rosso Malpelo)

Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
(La Lupa)

Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso.
(La Lupa)

Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: – Vorrei starci un mese laggiù! –
Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione.
(Fantasticheria)

Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
(Fantasticheria)

Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. – Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; – ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori.
(Fantasticheria)

Insomma l’ideale dell’ostrica! – direte voi. – Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora – cose serissime e rispettabilissime anch’esse.
(Fantasticheria)

Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. – Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
(Fantasticheria)

Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.
(Fantasticheria)

– Addio, Nedda! – le gridò dietro Janu.
– Addio, – balbettò da lontano Nedda.
E le parve che le stelle splendessero come soli, che tutti gli alberi, noti uno per uno, stendessero i rami sulla sua testa per proteggerla, e i sassi della via le accarezzassero i piedi indolenziti.
(Nedda)

Suocera e nuora insieme ci stanno proprio come due mule selvaggie alla stessa mangiatoia
(Pentolaccia)

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Novelle rusticane (1883)

Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba.
(La roba)

Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro.
(La roba)

Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! – diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba
(La roba)

A lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua.
(La roba)

Quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: ‘Roba mia, vientene con me!’.
(La roba)

Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!
(La roba)

Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia.
(Libertà)

I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro.
(Libertà)

Diggià la Sicilia sorgeva come una nuvola in fondo all’orizzonte. Poi l’Etna si accese tutt’a un tratto d’oro e di rubini, e la costa bianchiccia si squarciò qua e là in seni e promontori oscuri
(Di là del mare)

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Mastro Don Gesualdo (1889)

Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui.

Ciascuno fa il suo interesse… Al giorno d’oggi l’interesse va prima della parentela…

Oggi non si ha più riguardo a nessuno. Dicono che chi ha più denari, quello ha ragione.

Chi va all’acqua si bagna, e chi va a cavallo cade. Ma sinché non v’è uomini morti, a tutto si rimedia.

A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita!

Nei piccoli paesi c’è della gente che farebbe delle miglia per venire a portarvi la cattiva nuova.

Don Diego non stava né peggio né meglio. Era lì, aspettando quel che Dio mandava, come tutti i Trao, senza lagnarsi, senza cercare di fuggire il suo destino, badando solo di non incomodare gli altri, e tenersi per sé i suoi guai e le sue miserie.

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Storia di una capinera (1871)

Tutte le gioie del mondo lasciano in fine un senso di amarezza… tutte!

Perché il rumore di taluni passi si sente col cuore come se il cuore udisse?

Non parlavamo, non ci guardavamo… Tenevamo gli occhi fissi nel cielo, e mi pareva che le anime nostre si parlassero attraverso l’epidermide delle nostre mani e si abbracciassero nei nostri sguardi che s’incontravano nelle stelle.

Eppure… allorché egli mi prese per la mano… allorché mi passò il braccio attorno alla vita… mi sembrò che la sua mano ardesse, che mi bruciasse il sangue in tutte le vene, che mi facesse scorrere un’onda di gelo sino al cuore!… ma nello stesso tempo parvemi che mi confortasse. Il cuore mi si spezzava sentendo battere quell’altro cuore contro il mio!

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Eva (1873)

Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo. Non so quale.

Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create.

– Anche tu hai la malattia dell’arte!
– La malattia?
– Vuoi chiamarla follìa?

Tutti gli abissi hanno funeste attrazioni, e quelle voragini che ingoiano la giovinezza, il cuore, l’onore, si maledicono facilmente, ahimè! quando arriva la filosofia dei capelli bianchi.

Una donna non è che come vuol essere.

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Eros (1975)

La maggior parte dei nostri dolori ce li fabbrichiamo da noi.

Dolci sogni dei vent’anni che le bufere della vita fanno svolazzare qualche volta sul cuore dell’uomo, persino quando il sorriso dello scetticismo gli ha già increspato le labbra.

Avveleniamo la festa della nostra giovinezza esagerando e complicando i piaceri dell’amore sino a farne risultare dei dolori.

Intorbidiamo la serenità della nostra vecchiaia coi fantasmi di un’altra vita che nessuno conosce.

Quando si cade bisogna almeno aver la forza di non dare del viso nel fango.

Le parole hanno il valore che dà loro chi le ascolta.