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Michela Marzano (Roma 1970) è filosofa (docente all’Università di Parigi V: René Descartes) e autrice di romanzi e saggi (in lingua italiana e francese) che hanno come tema l’analisi della fragilità della condizione umana. Presentiamo qui di seguito una raccolta delle frasi più belle di Michela Marzano sull’amore, il patriarcato, la parità dei diritti, i disturbi dell’alimentazione, il suicidio e la fiducia.
Tra i temi correlati si veda Frasi femministe, le 60 frasi più belle, famose e profonde sulla donna, Frasi, citazioni e aforismi sul patriarcato e Le frasi più belle di Michela Murgia.
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Le frasi più belle di Michela Marzano
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L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore, 2013
L’amore comincia sempre dopo. Quando alla passione subentra l’affetto. E cominciamo a fidarci. E possiamo “amare con l’altro”.
L’essenza dell’amore è la libertà. Libertà di essere se stessi. Libertà di sbagliare e farsi male. Libertà di rompere tutto e di ricominciare. Libertà di aver paura che tutto finisca, di fare di tutto perché accada.
L’altro non potrà mai colmare il vuoto che ci portiamo dentro. Esattamente come noi non potremo mai colmare il suo. Il vuoto lo si può solo attraversare.
L’amore, con la comprensione, non c’entra quasi niente. Anzi. Quando si ama, si ama proprio perché non si capisce.
La persona che amiamo l’abbiamo già persa prima ancora di averla conosciuta e di averla amata. Anzi, la si ama proprio perché la si è già persa.
Si ama quella ferita che lui o lei portano dentro.
Lui è l’unico a indovinare che sono sempre “altro”: altro rispetto a quello che mostro e a quello che dico; altro rispetto a quello che la gente pensa; altro anche rispetto a quello che io stessa immagino.
La “persona giusta” non è quella che sarà in grado di calmare le nostre ansie e di riempire le nostre attese, ma colei che imparerà ad accettarci come siamo, con le nostre fratture e le nostre contraddizioni. Anche quando noi stessi facciamo fatica a sopportarci.
L’amore è sempre e solo la tacita promessa di rispettarsi anche quando non sappiamo tutto e non controlliamo tutto. Amarsi senza capire bene perché. Amarsi semplicemente, perché si sente che l’altro c’è, anche quando non è presente, non può essere qui, è lontano.
Gira e rigira siamo ancora là, in questo mondo terrificante in cui l’amore è oggetto di scambio come una qualunque altra merce, non solo all’interno delle relazioni adulte, ma anche e soprattutto nei rapporti familiari. Ti amo se. Ti amo a condizione che. Ti amo quando.
Il nostro principe finisce sempre per essere di un azzurro sbiadito. Anche se non vogliamo ammetterlo e continuiamo a prenderci in giro da soli. Fino a confondere l’amore con la sofferenza e i nostri desideri con la realtà. E dimenticarci che si può amare veramente solo chi è già lì, accanto a noi, nonostante le imperfezioni e le mancanze.
La vita sorprende, non la puoi controllare. E l’amore appare quando meno te lo aspetti. Forse perché non parla il linguaggio della razionalità e delle evidenze. E allora accade. Apre quella porta che avevi chiuso a chiave molto tempo prima e ti spinge a fare i conti con le ferite del passato. Rimette in discussione certezze e progetti. Costringe a interrogarsi su quello che si desidera veramente e su quello che invece non si vuole, nonostante per anni si sia fatto di tutto per convincersi del contrario.
Una cosa è amare donando, un’altra è amare ricevendo. Una cosa è l’amore possessivo ed egoista, altra cosa è l’amore di chi chiude una porta per aprirne subito dopo un’altra.
Tradire significa lasciare l’altro da solo proprio quando ha bisogno di noi. Non esserci quando si deve.
È sempre e solo per amore che ci si alza la mattina e si torna a casa la sera. È sempre e solo per amore che si stringono i denti e si tira avanti. È sempre e solo per amore che si scrive, si parla, si agisce, ci si agita, si spera.
Anche nell’amore più grande c’è uno spazio vuoto che non si può riempire, con tante zone d’ombra che non si potranno mai cancellare.
Anche l’amore più grande non è mai incondizionato.
Le cicatrici fanno male, perché nella vita non si cancella mai niente e tutto lascia tracce indelebili.
Per rimettere tutto in discussione bastano poche parole: «Non ti amo più». Quando arrivano, il cuore si spezza. Perché non è un semplice “non ti amo”. È un “non ti amo più”. Ed è proprio quel “più” che sbriciola tutto.
Quando si capisce che il principe azzurro non esiste si è costretti a scendere a patti con la realtà.
Se l’amore fosse solo il frutto dell’idealizzazione, non sopravvivrebbe all’urto con il reale. Sarebbe travolto dalla sua banalità. E si sbriciolerebbe come un bicchiere di cristallo che, cadendo in terra, va in frantumi.
Dicono che l’amore è cieco. Ma in fondo non è vero. Perché è solo quando si ama – quando si ama con l’altro – che si riesce a vedere e a toccare la profondità del proprio essere. Quell’essere–lì che per anni ci sfugge. Troppo concentrati ad apparire. Troppo preoccupati di quello che la gente avrebbe potuto pensare di noi.
In amore, come nella vita, non si dovrebbero mai avere aspettative troppo alte. Forse non ci si dovrebbe aspettare proprio niente, visto che le cose più belle accadono sempre all’improvviso.
L’amore, in fondo, è quel segreto che ci portiamo dentro. Due linee parallele che non si incontrano mai. Oppure sì, ma solo all’infinito.
L’intelligenza è fatta anche di empatia e di compassione e non si limita alla capacità di valutare e calcolare.
La libertà è proprio come l’amore. Uno dei tanti scacchi della vita. Forse perché l’unica libertà a disposizione degli esseri umani è una libertà sotto condizione: sono libero ma, sono libero però.
Liberi di niente. Tranne che di sapersi non-liberi.
Non basta volere qualcosa per ottenerla. E tante volte è proprio quello che si desidera di più che non succede mai. Persino quando si incontra un principe azzurro. Perché anche lui ha il diritto di non darci quello che vorremmo ricevere.
L’impegno e la volontà, con l’amore, non hanno nulla a che fare. Anzi, più ci si impegna, più tutto va a rotoli. Perché prima o poi l’altro finisce con il rimproverarti tutto ciò che hai fatto. Una lista infinita, piena di quello che hai detto, preteso, sperato, voluto, recriminato. Te lo rinfaccia e se ne va via.
Senza certezze e senza punti di riferimento stabili, la vita e l’amore diventano liquidi. Niente più promesse. Niente più sacrifici. Niente più impegno. Mentre il “finché morte non ci separi” viene vissuto come una trappola.
Si litiga, ci si separa, si incontra un’altra persona. Si litiga, ci si separa, si incontra un’altra persona. Si litiga, ci si separa, si incontra un’altra persona.
Talvolta amiamo solo un’immagine ideale di noi stessi. Quell’immagine particolare che l’altro ci rinvia e che ci lusinga anche quando sappiamo perfettamente che siamo “altro”. Quell’immagine che corteggiamo da lontano, anche quando siamo consapevoli del fatto che si tratta solo di un frammento.
Un’attenzione qualsiasi non è meglio di nessuna attenzione. Anzi. Accontentarsi delle briciole significa credere che il proprio destino sia segnato dall’assenza. Come se non si valesse niente, non si avesse alcun valore.
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Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne, 2010
Una donna deve pian piano imparare a non dipendere dallo sguardo dell’uomo; a non sentirsi bella solo quando un uomo glielo dice; a non sentirsi brava solo quando il capufficio o il professore la approva.
Quando il corpo non è altro che un oggetto di seduzione, la donna perde la possibilità di esprimersi indipendentemente dallo sguardo degli uomini.
La fissazione per il corpo è il nuovo oppio dei popoli.
Per rifiutare la sudditanza al potere maschile bisognerebbe prima di tutto riconoscere questa come forma di sudditanza.
I pregiudizi contro le donne hanno la pelle dura. Ancora oggi, quando una donna subisce violenze sessuali, viene il sospetto che, in fondo, possa essere anche colpa sua.
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all’uomo, tanto più l’uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento.
Anche quando non si arriva alla violenza intollerabile dello stupro o alle violenze fisiche, il maschilismo che offende ed umilia è ancora molto forte.
Dietro lo stupro c’è quasi sempre il bisogno di umiliare la donna, la volontà di lasciare una traccia di sé su quest’essere che si continua a considerare inferiore.
L’abitudine ci fa accettare l’inaccettabile.
L’obiettivo della donna non è quello di dominare l’uomo, dopo essere stata dominata per secoli, ma di lottare perché si esca progressivamente da questa logica di dominio, senza dimenticare che, nonostante tutto, l’essere umano è (e resterà sempre) profondamente ambivalente.
Essere dalla parte delle donne non significa sognare un mondo in cui i rapporti di dominio possano finalmente capovolgersi per far subire all’uomo ciò che la donna ha subito per secoli. Essere dalla parte delle donne vuol dire lottare per costruire una società egualitaria, in cui essere uomo o donna sia «indifferente», non abbia alcuna rilevanza. Non perché essere uomo o donna sia la stessa cosa, ma perché sia gli uomini sia le donne sono esseri umani che condividono il meglio e il peggio della condizione umana.
Non voglio essere un uomo, non voglio essere un neutro, io voglio essere una donna.
Finché non cesseranno di percepirsi come le vedono gli uomini, le donne non potranno fondare su sé stesse l’autostima.
Fino a quando l’unico modo per essere accettate e riconosciute uguali agli uomini sarà quello di negare la nostra differenza e fare come se tutti fossimo identici, noi donne non avremo vinto la nostra lotta per l’uguaglianza. Ci sarà sempre qualcuno che rifiuterà valore e dignità a chi non è «perfettamente identico».
L’uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l’autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al loro volere.
Le battaglie che sono state sostenute dalle donne per raggiungere l’uguaglianza e la libertà non sono mai vinte definitivamente.
Tutto è molto più complicato e problematico, però, quando, invece di capire che l’essere umano è un misto di bontà e di cattiveria, si cresce con la convinzione che gli «oggetti» del mondo si classificano in «oggetti buoni» e «oggetti cattivi». Perché, in fondo, è questo tipo di meccanismo che domina quando, diventati adulti, gli uomini si sentono obbligati a credere che esistano due categorie di donne: le madonne e le puttane.
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Volevo essere una farfalla, 2011
Provate solo per qualche istante a pensare cosa vuol dire avere la sensazione di doversi sempre giustificare. Provate a immaginare cosa può voler dire avere il sentimento di dover fare sempre qualcosa per dare un senso all’esistenza la certezza di non arrivarci. Che gli altri lo fanno meglio. Che voi non valete nulla, non servite a nulla, non avete alcun valore.
In quei momenti, non è la morte che fa paura. E’ la vita.
Non esistono le anoressiche e le bulimiche. Esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa. Che non sanno più bene come e quando «aprirsi» o «chiudersi» al mondo.
Questo è il mio corpo. Offerto in sacrificio per voi e per tutti.
La fame è terribile. Ma io, per fortuna, non so più cosa sia. Non perché non abbia più fame. Al contrario. Ho fame come tutti. Ma quando ho fame, mangio. Almeno ora. Che ho riscoperto l’equilibrio tra fame e sazietà. Che riesco a sapere se ho voglia di dolce o di salato. Che posso di nuovo nutrirmi senza sentirmi in colpa. Che posso mangiare due porzioni di torta al cioccolato senza fare il calcolo delle calorie ingurgitate o del numero di vasche in piscina che dovrei eventualmente fare per smaltirle tutte.
Anche se l’anoressia è solo un sintomo, e in quanto sintomo è solo la punta dell’iceberg, il mio sintomo non c’è più. E non è poco. Visto che è proprio nel sintomo che mi sono incastrata per anni.
Anni persi a non fare altro che lottare con la fame. Parlare della fame. Convivere con la fame. Anni passati a punirmi per ogni caloria di troppo che avevo la debolezza di ingoiare. Anni persi a mangiare e vomitare tutto…
Perché tra il «niente» e il «tutto» non c’era più alcuna differenza.
Può sembrare assurdo, ma il rituale del «mangiare e vomitare» dà l’illusione di «controllare» la situazione.
Senza rendermene conto, ho vinto la medaglia d’oro in «anticipazione».
L’anticipazione. Utilissima per farsi accettare in società. L’anticipazione. Strategia vincente nel lavoro. L’anticipazione… Una catastrofe!
Perché a forza di anticipare non sono più stata capace di capire quello che desideravo veramente… i miei bisogni, le mie contraddizioni…
È proprio la forza di volontà che sostiene l’anoressia. La nutre. La asseconda. La rinforza. Ci vuole una forza di volontà sovrumana per non mangiare, nonostante la fame. Ci vuole una forza di volontà sovrumana per non «cedere», anche quando si muore di freddo. Ci vuole una forza di volontà sovrumana per dire quel «no» definitivo, per scegliere il «niente», per andare avanti, per non sentirsi in colpa, per rifiutare la vita, per rinunciare all’amore.
Con l’anoressia non si gioca. Meno che mai chi ne soffre.
E’ forse l’unica cosa che ho veramente capito: nella vita non si può fare altro che accettarsi. Ed essere indulgenti. E perdonarsi.
Non è proprio perché non ci si ama, che si spera di incontrare un giorno colui o colei che ci amerà veramente?
L’anoressia non è come un raffreddore. Non passa così, da sola. Ma non è nemmeno una battaglia che si vince. L’anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa male dentro. La paura, il vuoto, l’abbandono, la violenza, la collera. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire.
Le anoressiche vogliono essere guardate. Per attirare l’attenzione. Per avere l’illusione di esistere anche solo qualche istante nello sguardo della gente. Ma quel corpo che cerca attenzione è solo un sintomo.
Mangiare tutto, subito, sbriciolando il presente. Vomitare tutto, subito, annullando il passato. Non più controllo, ma paralisi. Il fascino discreto della morte. Del nulla… Per punirsi di qualcosa. Vendicarsi. Ingoiare le proprie incertezze. Vomitare rabbia a fiotti. Finché il corpo, esausto, non ne può più.
È buffo come l’inconscio sia talvolta a fior di pelle… e si insinui nei meandri più reconditi della mente senza che nessuno se ne accorga… meno che mai i diretti interessati.
Per anni, ho fatto di tutto per diventare leggera come una farfalla. E ci sono quasi riuscita. In termini di chili, s’intende. Perché per il resto, la vita è stata spesso «troppo pesante». È stato pesante dover essere la più brava. È stato pesante cercare sempre di adattarmi alle aspettative altrui.
È difficile uscire dalla ripetizione. È difficile non essere più schiavi dello specchio deformante dello sguardo altrui. È difficile accettare di non essere capita, amata, accettata…
È difficile. Anche quando si impara a confrontarsi con il caos e con l’imprevisto. Perché ogni volta è la stessa storia. Accettare la tristezza che apre il baratro dell’esilio interiore. E sostare a lungo in questa landa desolata, anche quando si avrebbe voglia di fuggire via.
Solo oggi, a distanza di anni, capisco perché un giorno la mia analista mi ha detto che il mio «mito fondatore» era quello di Sisifo. Spingere un macigno su per una montagna per poi vederlo precipitare in basso appena raggiunta la cima e dover ricominciare tutto da capo.
Aveva ragione lei. Non bastava mai. Tutto era nello sforzo. Scalare la montagna. Andare sempre più in alto. Mettercela tutta. Prima di vedere il masso precipitare a valle e ricominciare di nuovo.
Ma nella vita le cose sono sempre più complicate. Il macigno continua a precipitare. E la soluzione è altrove. Perché si tratta sempre e solo di rompere il cerchio e di guardare da un’altra parte. Stare di fronte alla montagna e decidere di lasciar perdere e di non scalarla
Credo che amare significhi accettare l’altro nella sua differenza. Dargli la possibilità di essere libero di esprimere se stesso. Sapere che è sempre altro rispetto a quello che vorremmo che fosse.
Ama il prossimo tuo come te stesso…è una frase che tutti conoscono.. eppure nessuno, o quasi, insiste sufficientemente sulla seconda parte. Come te stesso.. dove il “come”, una parola apparentemente banale, è la parola chiave, perché è sempre da lì che nasce la relazione e perché la cosa più difficile è amare sé stessi…”
Ho lasciato la presa e da lì sono potuta ripartire, da quella consapevolezza sottile e fragile di poter essere anch’io “altro” rispetto alle esigenze del “dover essere.
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L’amore che mi resta, 2017
Nessuna madre è perfetta. Nessuna madre è capace. Nessuna madre va bene. L’importante è accogliere. È questo l’amore. Che non ripara niente, ma accetta. Non basta mai, ma soccorre.
Nel momento in cui nasce un bambino, nasce anche la madre. Lei non è mai esistita prima. Esisteva la donna, ma la madre no.
Si cresce, infatti è questo il punto. Si cresce, ed è come se un territorio ostile ci si spalancasse davanti, lo sforzo costante di essere accettati, la paura di passare inosservati, non so, mamma, c’è un momento in cui diventa difficile gettare un ponte fra il presente e il passato.
Ogni persona, nella vita, incontra la tragedia. Non è vero che c’è sempre una ricompensa per gli sforzi fatti. Se fosse così, il mondo sarebbe giusto. Ma il punto è proprio questo: il mondo è ingiusto. Lo è sempre stato.
Con lui mi sento piena, sazia. Come se all’improvviso l’assenza diventasse presenza. Adesso non trovo le parole giuste, mamma, ma è lui. È diverso da tutti gli altri.
Ho bisogno di silenzio, e i ricordi gridano. Ho bisogno dei ricordi, e il silenzio si stende su ogni cosa.
Non puoi più preoccuparti per lei. Lei non c’è. Lei si è ammazzata. Anche se c’è sempre. Il sempre dell’assenza.
Tu non ci sei più, e io sono inconsolabile. Il senso di colpa invade tutto, perché una madre deve saperlo, che un figlio sta male, che non ce la fa ad andare avanti, una madre lo sa, per forza, e se non lo sa lo intuisce, ma se lo intuisce perché non fa nulla? Il mio senso di colpa, gli altri non possono capirlo.
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Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, 2014
La nostra società contemporanea è una società della sfiducia. È un mondo in cui la paura vince e il sospetto dilaga. Perché la fiducia è pensata e concepita solo come riproduzione contrattuale del rapporto debitore-creditore. La fiducia è invece una scommessa, dove ci si assume il rischio della relazione con il proprio simile
A forza di essere sospettosi nei confronti di tutti si finisce per non fidarsi più nemmeno di se stessi.
La fiducia rimanda all’idea che ci si può fidare di qualcuno o di qualcosa. Il verbo confidare significa affidare qualche cosa di prezioso a qualcuno, abbandonandosi alla sua benevolenza.
Nella nostra modernità, in cui tutto è flessibile, effimero e «liquido», in cui nulla dura, i legami tra gli esseri umani sono sempre più fragili. Sempre più individualisti, incapaci di uscire dalla nostra solitudine esistenziale, finiamo con il perdere completamente la fiducia negli altri.
Chi promette a qualcuno di amarlo sempre o di essergli sempre fedele promette qualcosa che sfugge al suo controllo, salvo ridurre l’amore a una serie di gesti che si continuano a compiere anche quando non c’è più alcun sentimento.
Ci vuole un minimo di fiducia in se stessi per accettare di mettersi in una posizione di dipendenza e di vulnerabilità di fronte a un’altra persona.
Il problema della fiducia non risiede nell’incremento della certezza che non ci si sbaglierà mai o che gli altri saranno sempre all’altezza delle aspettative, ma nell’accettazione dell’incertezza, dei rischi, delle debolezze.
Come creare un legame se aspettiamo sempre di avere delle prove di fiducia?
Il contratto, questo «atto supremo» della società liberale, significa implicitamente che non ci fidiamo gli uni degli altri.
Se il dovere di verità fosse preso in senso stretto, come un dovere assoluto, questo renderebbe la società umana impossibile.
A puntare troppo su «zero difetti», si giunge al risultato contrario a quello che si vorrebbe ottenere. Invece di favorire la fiducia reciproca, si crea progressivamente confusione e sfiducia.