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Le frasi più belle di Beppe Fenoglio

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Beppe Fenoglio (Alba, 1 marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963) è stato partigiano, scrittore e traduttore.

Presento una raccolta delle frasi più belle di Beppe Fenoglio. Tra i temi correlati si veda Le frasi più belle di Cesare Pavese, Le frasi più belle di Italo Calvino e Frasi, citazioni e aforismi sulla Resistenza e la Liberazione.

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Le frasi più belle di Beppe Fenoglio

I ventitré giorni della città di Alba

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944.
Ai primi d’ottobre, il presidio repubblicano, sentendosi mancare il fiato per la stretta che gli davano i partigiani dalle colline (non dormivano da settimane, tutte le notti quelli scendevano a far bordello con le armi, erano esauriti gli stessi borghesi che pure non lasciavano più il letto), il presidio fece dire dai preti ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l’incolumità dell’esodo. I partigiani garantirono e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò.
(Incipit del racconto I ventitré giorni della città di Alba)

Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali.

A proposito dei capi, i capi erano subito entrati in municipio per trattare col commissario prefettizio e poi, dietro invito dello stesso, si presentarono al balcone, lentamente, per dare tutto il tempo ad un usciere di stendere per loro un ricco drappo sulla ringhiera. Ma videro abbasso la piazza vuota e deserti i balconi dirimpetto. Sicché la guardia del corpo corse in via Maestra a spedire in piazza quanti incontrava.

Su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini.

Quella prima notte d’occupazione passò bianca per civili e partigiani. Non si può chiudere occhio in una città conquistata ad un nemico che non è stato battuto.

Non successe niente, come niente successe negli otto giorni e nelle otto notti che seguirono. Accadde solo che i borghesi ebbero campo d’accorgersi che i partigiani erano per lo più bravi ragazzi e che come tali avevano dei brutti difetti.

Fu un lunghissimo parlamentare che fece crescere le barbe alla scorta, ma alla fine si restò come se niente fosse stato detto. I fascisti non vollero dire che non avevan voglia di riprendersi Alba con la forza, i partigiani non vollero dire che non si sentivano di difenderla a lungo e da queste reticenze nacque la battaglia di Alba

Il fatto è che tra loro non c’era un adulto, quelli che avevano fatto il soldato nel Regio Esercito erano forse cinque ogni cento. Nel buio di quella vigilia di battaglia, molti di quei minorenni che, per non aver mai voluto tirare alle galline, non avevano mai sparato il fucile, si domandavano ora se sparare poteva esser complicato e se il colpo faceva male alle orecchie.

Mentre ai campanili di Alba battevano le cinque, sul fiume scoppiò un rumore da non sapere se erano gli uomini a farlo o la terra o Dio, il rumore che comincia le battaglie, e dalla collina dei Biancardi la mitragliera partigiana prese a far pom pom, si vedevano le sue pallottole traccianti sprofon­darsi nei pioppeti del fiume e niente più.

C’erano di qua mitragliatrici americane e di là tedesche, e insieme fecero il più grande e lungo rumore che la città di Alba avesse sino allora sentito.

Sentì il rumore della fine del mondo e tutti i capelli gli si rizzarono in testa. Qualcosa al suo fianco si torse e andò giù morbidamente. Lui era in piedi, e la sua schiena era certamente intatta, l’orina gli irrorava le cosce, calda tanto da farlo quasi uscir di sentimento. Ma non svenne e sospirò: – Avanti!

Fu il Comandante la Piazza a dare il segno della ritirata, sparò un razzo rosso che descrisse un’allegra curva in quel cielo di ghisa. Parve che anche i fascisti fossero al corrente di quel segnale, perché smisero di colpo il fuoco concentrato e lasciavano partire solo più schioppettate sperse.

Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello sco­perto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Coman­dante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari.

Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che lag­giù tremava come una creatura.

I partigiani ripresero a salire, era spiovuto, i fascisti entrarono e andarono personalmente a suonarsi le campane.

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Una questione privata

La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba.
Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.

Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato.

Milton scrollò la testa. – Questa guerra non la si può fare che così. E poi non siamo noi che comandiamo a lei, ma è lei che comanda a noi.

Le bastavano, pareva, le poesie e i racconti che a getto continuo lui traduceva per lei. La prima volta le aveva portato la versione di Evelyn Hope. «Per me?» fece lei. «Esclusivamente». «Perché a me?» «Perché… guai se tu non sei il tipo per queste cose». «Guai a me?» «No, guai a me stesso». «E che cos’è?» «Beautiful Evelyn Hope is dead/Sit and watch by her side an hour». Dopo, le luccicavano gli occhi, ma preferì abbandonarsi all’ammirazione per il traduttore. «Proprio tu l’hai tradotta? Ma allora sei un vero dio. E cose allegre non ne traduci mai?» «Mai». «E perché?» «Nemmeno mi vengono sott’occhio. Credo che scappino da me, le cose allegre».

Camminava verso il culmine con passi lunghi e indifferenti,mentre il cuore gli batteva in tanti posti e tutti assurdi e sentiva la schiena allargarglisi,fino a debordare sulla strada.

Poi, guardando il sole, Fulvia disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere».

Senza Fulvia non sarebbe estate per lui, sarebbe stato l’unico al mondo a sentir freddo in quella piena estate.

Ascoltami bene, ragazzo. Io ti posso chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime quando il macellaio viene a comprarmi gli agnelli. Eppure, io sono quel medesimo che ti dice: tutti, fino all’ultimo, li dovete ammazzare. E segna quel che ti dico ancora. Quando verrà quel giorno glorioso, se ne ammazzerete solo una parte, se vi lascerete prendere dalla pietà o dalla stessa nausea del sangue, farete peccato mortale, sarà un vero tradimento. Chi quel gran giorno non sarà sporco di sangue fino alle ascelle, non venitemi a dire che è un buon patriota.

Arrivò sotto il portichetto. «Fulvia, Fulvia, amore mio». Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi. «Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto…
Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso».

Tu non devi sapere niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti.

C’era di mezzo la più lunga notte della sua vita. Ma domani avrebbe saputo. Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere. Avrebbe rinunciato a tutto per quella verità, tra quella verità e l’intelligenza del creato avrebbe optato per la prima.

Oh come stanno bene i miei poveri due figli, come stanno bene sottoterra, al riparo degli uomini.

Accese una sigaretta. Da quanto tempo non accendeva la sigaretta a Fulvia? Valeva sì la pena di attraversare a nuoto l’oceano pauroso della guerra per giungere a riva e non far altro che accendere la sigaretta a Fulvia.

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Il partigiano Johnny

E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno.

Aleggiava da sempre intorno a Johnny una vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione d’impraticità, di testa fra le nubi, di letteratura in vita.

Non si può essere partigiani senza un preciso sustrato ideologico. Non si sarà partigiani se non si sarà comunisti.

Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), poi vedere uno o più fascisti, alzarsi senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomaba mezzostimata, mezzoamata.

Masse compatte di nere nubi serravano al centro del cielo, dove una pozza di livida luce segnava il punto del naufragio del sole. Johnny pregò che scrosciasse e attese l’esaudimento, ma il temporale abortiva, sebbene il cielo si torcesse convulsamente.

L’ozio quando è troppo completo ti inchioda piú dell’occupazione piú frenetica.

L’unica maniera di ripagarlo sarebbe stata d’amare suo figlio come il padre aveva amato lui: a lui non ne verrà niente, ma il conto sarà pareggiato nel libro mastro della vita.

Erano gli uomini che avevano combattuto con lui, che stavano dalla sua parte anziché all’opposta. E lui era uno di loro, gli si era completamente liquefatto dentro il senso umiliante dello stacco di classe.

Io prego sempre per i partigiani. Tutte le sere dico una preghiera per i partigiani.

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La malora

Pioveva su tutte le langhe, lassú a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti.

Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarmi un gorgo profondo abbastanza.

Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non ce ne lasciava toccare neanche le briciole sull’orlo della conca. E quando seppe che a Niella ne pagavano l’arbarella un soldo di più che al nostro paese, andò a venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassù.

Tieni conto di cosa ho fatto per amore e usami indulgenza per cosa ho fatto per forza.

Io ero a servire, l’unico di tutta la parentela che fosse a servire, e la cosa imbarazzava anche loro.

I miei, quando avevano qualcosa da chiedere al cielo, era lui che facevano pregare, perché era il più innocente.

Tutto capitò come se io fossi un agnello in tempo di Pasqua. Andare ai mercati mi piaceva, ed è a un mercato che ho avuto la mia condanna. Non successe subito, potei girare ben bene il mercato di Niella e m’incrociai più d’una volta con l’uomo della bassa langa che un’ora dopo m’avrebbe tastato le braccia e misurato a spanne la schiena e contrattato poi con mio padre il mio valore. Disse Tobia Rabino: Vi do per lui sette marenghi l’anno. E mio padre: Me lo pagate un marengo per miria che pesa. Io pensavo solamente, in mezzo a tutte quelle parole, che mia madre a casa lo sapeva ed era come se fosse li con noi sul mercato di Niella.

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Un giorno di fuoco

Poi mossero gli occhi intorno e in alto. C’era da restare accecati a voler fissare là dove il cielo d’un azzurro di maggio si saldava alla cresta delle colline, di tutto nude fuorché di neve cristallizzata. Una irresistibile attrazione veniva, col barbaglio, da quella linea: sembrava essere la frontiera del mondo, da lassù potersi fare un tuffo senza fine

Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna.

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Il mio amore è Paco

Quanto a me, debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, e, quando a scuola ci accostavamo a parole come «atavismo» e «ancestrale» il cuore e la mente mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.

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L’andata

Da quella piazzetta si domina un po’ di Langa a sinistra e a destra le colline dell’Oltretanaro dopo le quali c’è la pianura in fondo a cui sta la grande città di Torino. I vapori del mattino si alzavano adagio e le colline apparivano come se si togliesse loro un vestito da sotto in su.

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La paga del sabato

Sulla tavola della cucina c’era una bottiglietta di linimento che suo padre si dava ogni sera tornando su dalla bottega, un piatto sporco d’olio, la scodella del sale… Ettore passò a guardare sua madre.
Stava a cucinare al gas, lui le guardò i fianchi sformati, i piedi piatti, quando si chinava la sottana le si sollevava dietro mostrando i grossi elastici subito sopra il ginocchio.

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Primavera di bellezza

Johnny fu assegnato alla prima compagnia, quella era la camerata. Ci penetrò fra pozze e rivoli d’acqua di sgelo: niente di meglio di un capannone autarchico, miserabile nella parte già occupata, decisamente sinistro in quella ancora disabitata. Sui castelli larve di uomini si ersero sui gomiti e sghignazzarono estenuatamente ai nuovi arrivati. Un sergente urlò che il silenzio era suonato da quatto ore circa.

Una camicia nera sceltissima evoluiva davanti al portale, slanciando gli arti a squadra, con dietrofront rapaci, coi tacchi incidendo il porfido, la nappa del fez canagliesco bussava inviperita alla sua nuca. Lorusso sembrava impressionato, Johnny invece lasciò partire la più matura e rotonda risata che avesse mai liberato, che saturò l’orgiastica piazza sino al livello del balcone.
– Che è che ti fa ridere tanto?
– Costoro che volevano marciare in trionfo per Trafalgar Square.

Ginnasticare, ginnasticare, ginnasticare. Sapete, allievi, che alla sua non più verde età Sua Eccellenza il generale Bergonzoli esegue salti con capovolta semplicemente perfetti, fantastici? Ginnasticare, ginnasticare, ginnasticare.

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Varie

Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare di aver fatto meglio questo che quello. E non ci sarà pericolo che il vento spezzi la mia lapide, perché giacerò nel basso e bene protetto cimitero di Alba.
(Diario)

Una superba volontà di fare mi gonfia tutto, ma non ho il bersaglio su cui puntare come un proiettile.
(Diario)

Sono nato in Alba il I marzo 1922 e in Alba vivo da sempre, a parte le lunghe assenze impostemi dal servizio militare e dalla lotta partigiana.
La mia attività base è quella di dirigente d’industria: più precisamente, curo l’esportazione di una nota casa vinicola piemontese.

Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith.

Senza fiori, soste né discorsi.
(Ultime istruzioni rivolte al fratello a riguardo della sua cerimonia funebre)