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Giorgio Caproni (Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990) è considerato uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. Carlo Bo, uno dei suoi primi critici, lo definì il “Poeta del sole, della luce e del mare”.

L’arco della poesia di Giorgio Caproni si estende per quasi sessant’anni, dai primi anni Trenta alla fine degli anni Ottanta del Novecento. I temi portanti della sua poetica sono: la madre, rievocata e ricordata in molte poesie; Livorno, la città dell’infanzia che ha lasciato a dieci anni e Genova, considerata la città dell’anima; il viaggio, un viaggio allegorico alla scoperta della vita e della morte. A Livorno, una targa posta in Corso Amedeo l’11 novembre 2007 ricorda il luogo in cui Giorgio Caproni nacque: “Qui nacque Giorgio Caproni / Poeta delicato e forte come la città /che lo vide nascere”.

Presento una raccolta delle poesie più belle di Giorgio Caproni. Tra i temi correlati si veda Le poesie più belle di Eugenio Montale, Le poesie più belle e celebri di Giuseppe Ungaretti, Le poesie più belle di Sandro Penna e Le frasi e poesie più belle di Antonia Pozzi.

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Le poesie più belle di Giorgio Caproni

Confine

Confine diceva il cartello
cercai la dogana, non c’era
non vidi dietro il cancello
ombra di terra straniera.

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Biglietto lasciato prima di non andar via

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
qua, dove non fui mai

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Generalizzando

Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi, né che sia.
Soltanto ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.

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Sassate

Ho provato a parlare.
Forse, ignoro la lingua.
Tutte frasi sbagliate.
Le risposte: sassate.

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Esperienza

Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato.

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Preghiera d’esortazione o d’incoraggiamento

Ah, mio dio, Mio Dio,
perché non esisti?
Dio onnipotente, cerca (sfórzati) a furia di insistere
almeno di esistere.

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Occasione

L’occasione era bella.
Volli sperare anch’io.
Puntai in alto. Una stella
o l’occhio (il gelo) di Dio?

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Furto

Hanno rubato Dio.
Il cielo è vuoto.
Il ladro non è ancora stato
(non lo sarà mai) arrestato

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Indicazione

Smettetela di tormentarvi.
Se volete incontrarmi,
cercatemi dove non mi trovo.
Non so indicarvi altro luogo.

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Pensiero pio

Sta forse nel non essere
l’immensità di Dio?

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Le parole

Le parole. Già.
Dissolvono l’oggetto.
Come la nebbia gli alberi,
il fiume: il traghetto.

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Concessione

Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.

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Le carte

Imbrogliare le carte,
far perdere la partita.
È il compito del poeta?
Lo scopo della sua vita.

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Rivelazione

Mi sono risolto.
Mi sono voltato indietro.
Ho scorto
uno per uno negli occhi
i miei assassini.
Hanno
– tutti quanti – il mio volto.

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Saggia apostrofe a tutti i caccianti

Fermi! Tanto
non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro.

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Ritorno

Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.

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Ricordo

Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell’ora in cui l’aria s’arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l’arcata del cielo.
Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.
Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.

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A Rina

Senza di te un albero
non sarebbe più un albero.
Nulla senza di te
sarebbe quello che è.

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Foglie

Quanti se ne sono andati…
Quanti.
Che cosa resta.
Nemmeno
il soffio.
Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.
Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.
Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.
Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.
Tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi.
Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.
Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.

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Raggiungimento

Andavo. Andavo.
Cercavo dove poter sostare.
Ero ormai sul discrimine.
Dove finisce l’erba
e comincia il mare.

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Pensatina dell’antimetafisicamente

Un’idea mi frulla,
scema come una rosa.
Dopo di noi non c’è nulla.
Nemmeno il nulla,
che già sarebbe qualcosa.

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Alba

Amore mio, nei vapori di un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?…Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitio tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte,
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

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Litanìa

Genova mia città intera.
Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.

Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria scale.

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Versicoli quasi ecologici (poesia uscita come traccia per il tema della maturità 2017)

Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: “Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

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Tagliando corto

da sempre me ne sono accorto.
La ragione è sempre
dalla parte del torto.

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Allegria

Faceva freddo. Il vento
mi tagliava le dita.
Ero senza fiato. Non ero
stato mai più contento.

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Per lei

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.

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Preghiera

Anima mia leggera,
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancora viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.

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Donna che apre riviere

Sei donna di marine,
donna che apre riviere.
L’aria delle mattine
bianche è la tua aria
di sale e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l’ampie
vesti tue così chiare.

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Deus Absconditus

Un semplice dato:
Dio non s’è nascosto.
Dio si è suicidato.

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Perché restare

La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.

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Congedo del viaggiatore cerimonioso

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio)’ confidare.

(Scusate. E una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento