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Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1 giugno 1970) è considerato uno dei massimi poeti italiani del Novecento.
“Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene” scrive Giuseppe Ungaretti, per il quale la parola può illuminare, con la sua piccola lucerna, “l’inesauribile segreto” che ci circonda, senza però arrivare a scalfirne il mistero. “La parola è impotente, la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai. Lo avvicina”.
Presento una raccolta delle poesie più belle e celebri di Giuseppe Ungaretti. Tra i temi correlati si veda Le poesie più belle di Eugenio Montale, Le poesie più belle e celebri di Salvatore Quasimodo e Le più belle poesie brevi.
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Le poesie più belle e celebri di Giuseppe Ungaretti
Veglia
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
(Cima Quattro il 23 dicembre 1915)
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Eterno
Tra un fiore colto e l’altro donato
l’inesprimibile nulla.
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Fratelli
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
(Mariano il 15 luglio 1916)
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Mattina
M’illumino
d’immenso.
(Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917)
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San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato
(Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916)
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Soldati
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
(Bosco di Courton luglio 1918)
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Porto sepolto
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
(Mariano il 29 giugno 1916)
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Allegria di naufragi
E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare
(Versa il 14 febbraio 1917)
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Sono una creatura
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo.
(Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916)
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Agonia
Morire come le allodole assetate
sul miraggio
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato.
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Rose in fiamme
Su un oceano
di scampanelli
repentina
galleggia un’altra mattina.
(Vallone il 17 agosto 1917)
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Peso
Quel contadino
si affida alla medaglia
di Sant’Antonio
e va leggero
Ma ben sola e ben nuda
senza miraggio
porto la mia anima.
(Mariano, il 29 luglio 1916)
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Commiato
Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.
(Locvizza, il 2 ottobre 1916)
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Vanità
D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità
E l’uomo
curvato
sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombra
Cullata e
piano
franta.
(Vallone, il 19 agosto 1917)
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Natale
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole di fumo
del focolare.
(Napoli, il 26 dicembre 1916)
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Dannazione
Chiuso fra cose mortali
(Anche il cielo stellato finirà)
Perché bramo Dio?
(Mariano del Friuli, il 29 giugno 1916)
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Stasera
Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia.
(Versa, 21 maggio 1916)
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Sereno
Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle.
Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore
del cielo.
Mi riconosco
immagine
passeggera
presa in un giro
immortale.
(Bosco di Courton, luglio 1918)
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Pellegrinaggio
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia
(Valloncello dell’Albero isolato, il 16 agosto 1916)
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Non gridate più
Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.
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La notte bella
Quale canto s’è levato stanotte
che intesse
di cristallina eco del cuore
le stelle
Quale festa sorgiva
di cuore a nozze
Sono stato
uno stagno di buio
Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio
Ora sono ubriaco
d’universo
(Devatachi, 24 agosto 1916)
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Giorno per giorno
4
Mai, non saprete mai come m’illumina
L’ombra che mi si pone a lato, timida,
Quando non spero più.
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Giorno per giorno
8
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto
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I fiumi
Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
(Cotici, il 16 agosto 1916)
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La madre
E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia.
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.
Struggente