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frasi, citazioni e aforismi di Piero Calamandrei

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Piero Calamandrei (Firenze, 1889-1956), politico, giurista, insigne avvocato e strenuo antifascista, fu tra i fondatori del Partito d’azione; fu membro della Consulta nazionale, poi della Costituente, dal 1948 al 1953 deputato alla Camera. Fondò, con Giuseppe Chiovenda e Francesco Carnelutti, la Rivista di diritto processuale civile.

Presento una raccolta frasi, citazioni e aforismi di Piero Calamandrei. Tra i temi correlati si veda 25 aprile – Frasi, citazioni e aforismi sull’Anniversario della Liberazione, Frasi, citazioni e aforismi contro il fascismo, Frasi, citazioni e aforismi sulla Costituzione e Frasi, citazioni e aforismi sulla libertà.

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Frasi, citazioni e aforismi di Piero Calamandrei

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Discorso sulla Costituzione agli studenti di Milano, 1955

La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.

In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli.

Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.

Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.

La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere.

La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.

Una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica.

La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità.

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Dall’arringa di difesa di Danilo Dolci, 1956

La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: «pari dignità sociale»; «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; «Repubblica fondata sul lavoro»; «Diritto al lavoro”; «condizioni che rendano effettivo questo diritto»; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa»…
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?

Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico.

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Frasi di Piero Calamandrei sulla Resistenza

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza.

Quando si dice che la guerra partigiana si distingue da tutte le altre guerre perché fu una guerra fatta interamente da volontari, si dice giusto, ma non si dice tutto. Essa fu qualcosa di più: un’adunata spontanea e collettiva: un movimento di popolo, una iniziativa di popolo

In queste celebrazioni che noi facciamo della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi dieci anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi.

Il compito degli uomini della Resistenza non è finito. Bisogna che essa sia ancora in piedi.

L’8 settembre, quando cominciò spontaneo e non ordinato da qualcuno questo accorrere di uomini liberi verso la montagna, avvenne qualcosa di misterioso che a ripensarlo oggi sembra un miracolo di cui si stenta a trovare una spiegazione umana. Nessuno aveva ordinato l’adunata: questi uomini accorsero da tutte le parti e si cercarono e si adunarono da sé. […] Quella chiamata fu anonima, non venne dal di fuori: era la chiamata di una voce diffusa come l’aria che si respirava, che si svegliava da sé in ogni cuore, nei più generosi e nei più pigri, un’ispirazione che sussurrava dentro: «Se sei un uomo, se hai dignità d’uomo, questa è l’ora!»

Quando io considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come certe piante subacquee che in tutti i laghi di una regione alpina affiorano nello stesso giorno alla superficie per guardare il cielo primaverile, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s’accorgono che è giunta l’ora di mettersi in viaggio. Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.

I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell’adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all’improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!».

Il dramma della Resistenza e del nostro Paese è stato questo: che la Resistenza, dopo aver trionfato in guerra, come epopea partigiana, è stata soffocata e bandita dalle vecchie forze conservatrici appena essa si è affacciata alla vita politica del tempo di pace, ov’essa era chiamata a dar vita a una nuova classe politica che riempisse il vuoto lasciato dalla catastrofe.

La Resistenza aveva lasciato al mondo una speranza: più che una speranza, un impegno. Chi l’ha tradito? Perché l’abbiamo tradito?

Se si vuole intendere che cosa fu la Resistenza, non si deve dar questo nome soltanto al periodo finale che va dall’8 settembre al 25 aprile. Questo fu il parossismo finale della lotta; ma l’inizio di essa risaliva a venticinque anni prima

I morti della Resistenza vollero essere, credettero di essere, le avanguardie di una nuova classe dirigente, pulita ed onesta, fatta di popolo, destinata a prendere il posto di tutti i profittatori e di tutti i corruttori. Quei morti furono la testimonianza e la promessa di un autogoverno popolare in formazione: ma, finita la guerra, i vecchi vivi risalirono sulle poltrone e la voce dei giovani morti fu ricoperta da quelle vecchie querele

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Frasi di Piero Calamandrei sul fascismo

Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione morale.

Ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo: l’umiliazione brutale ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell’uomo degradato a cosa.

Fra le tante distruzioni di cui il passaggio della pestilenza fascista è responsabile, si dovrà annoverare anche quella, non riparabile in pochi anni, del senso della legalità. Per vent’anni il fascismo ha educato i cittadini proprio a disprezzare le leggi, a far di tutto per frodarle e per irriderle nell’ombra.

Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono a uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Roselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata

Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi democratici.

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Piero Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1935

Per trovar la purezza in tribunale, bisogna entrarci con animo puro.

Ho quasi sempre vinto le cause in cui avevo come avversarî avvocati più furbi di me; ma, se non le ho vinte, son stato fiero di non trovarmi al posto del vincitore.

Il diritto, fino a che nessuno lo turba e lo contrasta, ci attornia invisibile e impalpabile come l’aria che respiriamo: inavvertito come la salute, di cui si intende il pregio solo quando ci accorgiamo di averla perduta.

Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore.

Per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede.

Affinché non vacilli la fede nella giustizia, non deve neanche esser possibile il sospetto che la libertà personale degli umili valga meno di quella dei potenti.

Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa’.

Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto.

Il giudice è il diritto fatto uomo.

Grave peccato per il giudice è la superbia; ma forse è una malattia professionale.

I giudici son come gli appartenenti a un ordine religioso: bisogna che ognuno di esso sia un esemplare di virtù, se non vuole che i credenti perdano la fede.

Non era né un eroe né un santo: era semplicemente un avvocato.

“Che vuol dire «grande avvocato»? Vuol dire avvocato utile ai giudici per aiutarli a decidere secondo giustizia, utile al cliente per aiutarlo a far valere le proprie ragioni.

L’avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé.

L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri.

All’avvocato, quando tratta col giudice, non disdice l’umiltà: che non è né viltà né piaggeria di fronte all’uomo, ma reverenza civica all’altezza della funzione.

Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione

Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l’impressione che può fidarsene come se fosse fuori di udienza.

Ogni popolo, si potrebbe dire, ha la magistratura che si merita.

Non basta che i magistrati conoscano a perfezione le leggi come sono scritte; sarebbe necessario che altrettanto conoscessero la società in cui queste leggi devono vivere.

Non sempre sentenza ben motivata vuol dire sentenza giusta; né viceversa.

Bisognerebbe che ogni avvocato per due mesi all’anno facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all’anno, facesse l’avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi: e reciprocamente si stimerebbero di più.

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Piero Calamandrei, Il Ponte, articoli dal 1946 al 1951

Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza.

Il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale lungamente maturata nell’interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell’infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi.

La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l’uomo si è reso capace, nei millenni, di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui.

Quando la fede si trasforma in partito, e la lotta politica diventa guerra di religione, il partito confessionale è portato anche senza volerlo, anche senza accorgersene, a comportarsi come partito totalitario

La sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.

Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.

La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale.

Per far funzionare un Parlamento, bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione

Non più indipendenza, ma “interdipendenza”: questa è la parola non nuova in cui se non si vuol che il domani ripeta ed aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato.

Talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo.

Tutto è religione quello che dimostra la transitorietà dell’uomo ma la perpetuità dei suoi ideali.

Quando per diventare direttore di una banca, o preside di una scuola, o socio di un’accademia scientifica, o componente di una commissione di concorso universitario è necessario aver la tessera del partito che è al governo, allora quel partito sta diventando regime […] diventa una specie di malattia paragonabile all’arteriosclerosi perché impedisce quella circolazione e quel continuo ringiovanimento della classe dirigente, che è la prima condizione di vitalità d’ogni sana democrazia.

[Parlando della Democrazia Cristiana] Questi falsi credenti che non credono a nulla, ma che vanno in processione perché questo serve a i loro sporchi affari; questi bocciati agli esami che vincono i concorsi, in mancanza di una laurea, con un certificato parrocchiale; questi professionisti della corruzione, i quali si accorgono che i metodi di arricchimento che ieri erano tollerati a prezzo di un saluto romano, sonò anche oggi rispettati ugualmente a prezzo di una genuflessione.

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Da critica sociale, 1956

Il deputato e il senatore sta diventando sempre più, in tutti i paesi dov’è in esercizio il sistema parlamentare, un funzionario stipendiato. Bisognerà arrivare a inibirgli il cumulo coll’esercizio di ogni altra attività retribuita, professionale o impiegatizia, come si vieta oggi agli impiegati dello Stato, la cui attività dev’essere interamente dedicata alla loro funzione, dalla quale essi legittimamente ritraggono quanto basta per vivere.

L psicologia del parlamentare si «burocratizza»: essere eletti deputati vuol dire trovare un impiego: l’attivismo politico diventa una «carriera». Non esser rieletti vuol dire perdere il pane: le campagne elettorali diventano, per molti candidati, lotte contro la (propria) disoccupazione.

Chiamare i deputati e i senatori i «rappresentanti del popolo» non vuol più dire oggi quello che con questa frase si voleva dire in altri tempi: si dovrebbero piuttosto chiamare impiegati del loro partito.

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Altre frasi di Piero Calamandrei

Le diversità di opinioni politiche sono essenziali in ogni convivenza democratica; ma alla base ci deve essere un sentimento di fede nell’uomo, di rispetto alla dignità dell’uomo.

Sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra.

“La legge è uguale per tutti” è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria.

La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l’aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l’aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.

La maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico.

Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi

Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta.

Rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un’altra razza o a un’altra religione o a un altro partito.

Senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà.

Chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra.

Anche quando si trovi un ministro pieno di buone intenzioni, il quale si proponga di ridurre la scuola a essere veramente creatrice della democrazia come la Costituzione vorrebbe, è difficile che esso abbia approfondita conoscenza dei problemi tecnici, attinenti a tutti gli ordini di scuole, che occorre affrontare per avvicinarsi a questo ideale: per la tecnica, gli uomini politici debbono rimettersi ai burocrati; e i burocrati, assai spesso, sono conoscitori di congegni amministrativi, ma non di anime.