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Le frasi più belle di Giorgio Bassani

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Giorgio Bassani (Bologna, 4 marzo 1916 – Roma, 13 aprile 2000) è stato uno scrittore italiano, principalmente conosciuto per il romanzo Il giardino dei Finzi Contini, capolavoro letterario del 1962.

Presento una raccolta delle frasi più belle di Giorgio Bassani. Frasi, citazioni e aforismi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Frasi, citazioni e aforismi di Cesare Pavese e Frasi, citazioni e aforismi di Alberto Moravia.

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Le frasi più belle di Giorgio Bassani

Il giardino dei Finzi Contini, 1962

Gli anni parevano belli, floridi: tutto invitava a sperare, a osare liberamente.

Chissà come nasce e perché una vocazione alla solitudine.

Quanti anni sono passati da quel remoto pomeriggio di giugno? Più di trenta. Eppure, se chiudo gli occhi, Micòl Finzi-Contini sta ancora là, affacciata al muro di cinta del suo giardino, che mi guarda e mi parla.

Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta.

L’amore (così almeno se lo figura lei) è roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce più del tennis! Da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d’animo e onestà di propositi.

L’amore, quando è puro, cioè totalmente disinteressato, è sempre anormale, asociale.

Era il “nostro” vizio, questo: d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro.

Anche le cose muoiono. E dunque, se anche loro devono morire, tant’è, meglio lasciarle andare. C’è molto più stile, oltre tutto.

Oh, l’inverno 38-39! Ricordo quei lunghi mesi immobili, come sospesi al di sopra del tempo e della disperazione, e ancora adesso, a più di vent’anni di distanza, le quattro pareti dello studio di Alberto Finzi-Contini tornano ad essere per me il vizio, la droga tanto necessaria, quanto inconsapevole di ogni giorno d’allora…

Ancora qualche secondo, e avrei udito la sua voce, il suo «ciao». «Ciao» disse Micòl, ferma sulla soglia. «Che bravo, a venire.» Avevo previsto tutto con molta esattezza: tutto, tranne che l’avrei baciata.

«Ti passerà» continuava, «ti passerà, e molto più presto di quanto tu non creda.Certo, mi dispiace: immagino quello che senti in questo momento. Però un pochino t’invidio, sai? Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare… Capire da vecchi è brutto, molto più brutto. Come si fa? Non c’è più tempo per ricominciare da zero, e la nostra generazione ne ha prese talmente tante, dicantonate!».

Una delle forme più odiose di antisemitismo era appunto questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all’ambiente circostante, lamentare che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un poco diversi dalla media comune.

Quella specie di pigra brace che è tante volte il cuore dei giovani.”

La realtà è che il tennis – sentenziò con straordinaria enfasi – oltre che uno sport è anche un’arte, e siccome ogni forma d’arte esige un certo talento particolare, chi ne risulti privo rimarrà sempre una scarpa, vita natural durante.

Com’era bello di notte il Barchetto del Duca – pensavo . con quanta dolcezza la luna lo illuminava! Fra quelle ombre di latte, in quel mare d’argento, io non cercavo niente.

«[Micòl] Sono anche io come tutte le altre: bugiarda, traditora, infedele… Non molto diversa da un’Adriana Trentini qualsiasi, in fondo».
Aveva detto «infedele» spiccando le sillabe, con una specie di amaro orgoglio. Proseguendo, aggiunse che se io avevo avuto un torto era sempre stato quello di sopravalutarla un po’ troppo. Con questo, non è che avesse la minima intenzione di scagionarsi, per carità. Tuttavia era un fatto: lei aveva sempre letto nei miei occhi tanto «idealismo» da sentirsi in qualche modo forzata ad apparire migliore di quanto non fosse in realtà.

Ma Micòl non discese, per questo, dal piedistallo di purezza e di superiorità morale su cui, da quando ero partito per l’esilio, l’avevo collocata. Essa continuò a rimanerci, lassù. Io, per me, mi consideravo fortunato di essere stato riammesso ad ammirarne ogni tanto l’immagine lontana, bella di dentro non meno che di fuori.

Più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può apparire che delusivo, banale, insufficiente.

La verità è che a furia di far collezioni, di cose, di piante, di tutto, si finisce a poco a poco col voler farle anche con le persone.

Mi aggrappavo alla scrivanietta che il professore Ermanno dal gennaio scorso aveva fatto collocare per me sotto la finestra di mezzo del salone del biliardo, come se, così facendo, mi fosse dato di arrestare l’inarrestabile progresso del tempo.

La paura, anche in arte, è sempre stata una pessima consigliera.

Certo è che quasi presaga della prossima fine, sua e di tutti i suoi, Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei del suo futuro democratico e sociale non gliene importava un fico, che il futuro, in sè, lei lo aborriva, ad esso preferendo di gran lunga le vierge, le vivace et le bel aujourd’hiu, e il passato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato.

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Dietro la porta, 1964

Sono stato molto infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quello che si dice il fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l’ottobre del 1929 e il giugno del ’30, quando facevo la prima liceo.

Il professor Bianchi, d’italiano, aveva cominciato le lezioni declamando una canzone di Dante, e un verso, di questa, mi aveva straordinariamente colpito. Diceva:«L’essilio che m’è dato a onor mi tegno». Poteva essere la mia divisa – pensavo –, il mio motto.

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L’airone, 1968

L’airone si abbassò ancora. Ormai se ne scorgevano le zampe magre come stecchi, tese all’indietro, il becco grande, a punta, la testina da rettile. Di colpo, tuttavia, quasi spossato dallo sforzo compiuto, oppure come se fiutasse qualche pericolo, si rovesciò sul dorso, e, riprendendo quota, in pochi secondi scomparve in direzione del campanile di Pomposa.

Veniva avanti l’airone, adesso, sempre più avanti, mostrandoglisi con straordinaria, quasi insopportabile evidenza. Sulla testina perfettamente liscia inalberava per di dietro qualcosa di esile: una specie di filo, di antenna, chi lo sa. E lui, col cuore che frattanto aveva cominciato a battergli forte contro l’osso dello sterno, stava appunto chiedendosi che cosa diamine potesse essere quello strano affare, e stringeva le palpebre per cercare di vedere meglio, quando, all’improvviso, nella vasta aria soleggiata e ventosa, udì echeggiare il solito doppio sparo.

Non cadde subito. Lo vide impennarsi, sbattere disordinatamente le ampie ali marrone, quindi sbandare verso l’isolotto da cui erano partite le fucilate. Lottava per sostenersi, per riprendere quota. Ma poi di colpo si lasciò andare, e venne giù come se stesse rompendosi in tanti pezzi.

Come diventava stupida, ridicola, grottesca, la vita, la famosa vita… E come ci si sentiva bene, immediatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di mangiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva!

Guardava ad una ad una le bestie imbalsamate, magnifiche tutte nella loro morte, più vive che se fossero vive. […] Vivi ad ogni modo anche gli uccelli di una vita che non correva più nessun rischio di deteriorarsi, tirati a lucido, ma soprattutto diventati di gran lunga più belli i quanto respiravano e il sangue correva veloce nelle loro vene, lui solo, forse – pensava – era in grado di capirla davvero la perfezione di quella loro bellezza finale e non deperibile, di apprezzarla sino in fondo.

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Gli occhiali d’oro, 1958

La gioia di mio padre – pensavo – era quella dello scolaretto ingiustamente espulso, il quale, richiamato indietro per ordine del maestro dal corridoio deserto dove rimase per un poco di tempo in esilio, si trovi, a un tratto, contro ogni sua aspettativa, riammesso in aula fra i cari compagni: non soltanto assolto, ma riconosciuto innocente e riabilitato in pieno. Ebbene non era giusto, in fondo, che mio padre gioisse come quel bambino? Io però no. Il senso di solitudine che mi aveva sempre accompagnato in quei due ultimi mesi diventava se mai, proprio adesso, ancora più atroce: totale e definitivo. Dal mio esilio non sarei mai tornato, io. Mai più.

Stavamo ormai avvicinandoci a casa mia. Se ci precedeva, la cagna si fermava a ogni incrocio come timorosa di perderci un’altra volta. “La guardi”, diceva intanto Fadigati, indicandomela. “Forse bisognerebbe essere così, sapere accettare la propria natura. Ma d’altra parte come si fa? E’ possibile pagare un prezzo simile? Nell’uomo c’è molto della bestia, eppure può, l’uomo,arrendersi? Ammettere di essere una bestia, e soltanto una bestia?

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Cinque storie ferraresi, 1956.

I luoghi dove si ha pianto, dove si ha sofferto, e dove si trovarono molte risorse interne per sperare e resistere, sono proprio quelli a cui ci si affeziona di più.

La vita sa confondere le sue tracce, e tutto del passato, può diventare materia di sogno, argomento di leggenda.

Conoscere se stessi, lottare contro le proprie tendenze e uscirne qualche volta vincitori, non può succedere che fra le quattro mura di una cella.

Di che massacri immaginari non sono mai responsabili la noia e l’ozio della provincia?

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Varie

Davvero cari non saprei dirvelo
attraverso quali
strade cosi di lontano
io sia riuscito dopo talmente
tanto tempo a tornare.
Vi dirò soltanto che mi lasciai
pilotare nel buio
da qualcheduno che m’aveva
preso in silenzio per la
mano.

Chi corre dietro al pubblico, vuol dire che dentro di sé non ha niente.

L’Arte, lo sappiamo, è sempre uguale a sé stessa. Sta là, diversa dalla Vita, anzi il suo contrario, a ricordarci della Vita, e, talvolta, addirittura a restituircela.

Il giardino dei Finzi-Contini non è mai esistito a Ferrara, me lo sono inventato. L’ho collocato a Ferrara perché mi serviva da un punto di vista poetico, avevo bisogno di un fatto di questo genere, e non è mai esistito, né sono mai esistiti i Finzi-Contini come famiglia, né tanto meno Micòl Finzi-Contini. Me lo chiedono in molti: ma è esistita veramente Micòl? Non è mai esistita. Però, naturalmente, Micòl è esistita in quanto che sono esistito io, esisto io, è una forma del mio sentimento, è una parte di me.

Cara Jenny, per disegnare bene, bisogna essere molto cattivi, ricordatelo. Bisogna smontare il mondo, per ricostruirlo poi pezzo a pezzo, con infinita pazienza

La poesia è delle anime vergini, degli angeli, di chi crede. Naturalmente noi non viviamo più all’età d’Omero, e quindi ci è difficile trovare qualcosa in cui credere. Ma ad ogni modo, per essere poeti bisogna tornare a una necessaria condizione d’ingenuità.

Siamo dilettanti in tutto, ma non nel campo della vita morale. In questo campo sentiamo di non essere inferiori a nessuno, rivendichiamo la nostra competenza. Qui siamo altamente competenti.

La civiltà industriale e tecnologica ha permesso all’umanità di sconfiggere o quasi la morte precoce. Nel corso degli ultimi cento anni la popolazione terrestre ha potuto triplicarsi. E tuttavia gli uomini continuano oggi ancora a nutrirsi come una volta, come sempre, di carne sanguinante, oggi ancora continuano a fondare la loro sussistenza sulla morte di altri esseri viventi. La verità è che la civiltà industriale e tecnologica non va rifiutata, bensì corretta, piegata, dominata. Capace, come è, di fornire surrogati di tutto, o quasi tutto, perché non le chiediamo di riscattarci dall’abiezione della più grossa delle nostre contraddizioni, l’organizzato assassinio degli animali?