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Le frasipiù belle di Carlo Levi, autore di Cristo si è fermato a Eboli

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Carlo Levi (Torino, 29 novembre 1902 – Roma, 4 gennaio 1975), pittore, scrittore e giornalista italiano, è tra i più significativi narratori del Novecento italiano. Oppositore del regime fascista, venne confinato in Basilicata dove scrive il suo più celebre romanzo “Cristo si è fermato a Eboli”, che lo rese uno dei maggiori portavoce della questione meridionale nel secondo dopoguerra.

Presento una raccolta delle frasi più belle di Carlo Levi. Tra i temi correlati Frasi, citazioni e aforismi di Primo Levi, Le frasi più belle di Giorgio Bassani e Le frasi più belle di Bebbe Fenoglio.

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Le frasi e citazioni più belle di Carlo Levi

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Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, 1945

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.
(Incipit di Cristo si è fermato a Eboli)

Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla piú che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto piú profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiú il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo.
(Incipit di Cristo si è fermato a Eboli)

I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.
(Incipit di Cristo si è fermato a Eboli)

I contadini risalivano le strade con i loro animali e rifluivano alle loro case, come ogni sera, con la monotonia di una eterna marea, in un loro oscuro, misterioso mondo senza speranza. Gli altri, i signori, li avevo ormai fin troppo conosciuti, e sentivo con ribrezzo il contatto attaccaticcio della assurda tela di ragno della loro vita quotidiana; polveroso nodo senza mistero, di interessi, di passioni miserabili, di noia, di avida impotenza, e di miseria.

C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.

Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

Per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico.

Il mio orologio si era fermato, nessun rintocco di fuori poteva aggiungermi e indicarmi il passare del tempo, dove il tempo non scorre. Così finì, in un momento indeterminato, l’anno 1935, quest’anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano.

Il mutarsi dei giorni era un semplice variare di nuvole e di sole: il nuovo anno giaceva immobile, come un tronco addormentato. Nell’uguaglianza delle ore, non c’è posto né per la memoria né per la speranza: passato e futuro sono come due stagni morti.

Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. – ‘Ninte’, – come dicono a Gagliano. – Che cosa hai mangiato? – Niente. – Che cosa speri? – Niente. – Che cosa si può fare? – Niente -. La stessa, e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo. L’altra parola che ritorna sempre nei discorsi è ‘crai’, il ‘cras’ latino, domani. Tutto quello che si aspetta, che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato è ‘crai’. Ma ‘crai’ significa mai.

Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c’è senso di Stato né di religione, tiene, con tanta maggiore intensità, il posto di quelli. Non è l’istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale; ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza.

Nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magía.

Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.

La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una dea infernale delle messi.

In questi paesi, i nomi significano qualcosa: c’è in loro un potere magico: una parola non è mai una convenzione o un fiato di vento, ma una realtà, una cosa che agisce.

Il loro cuore è mite, e l’animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione.

Col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte.

Se si sapesse leggere e scrivere, non ci potrebbero così derubare. Ora ci sono le scuole, ma non ci si insegna nulla. Quelli di Roma preferiscono che noi si resti come bestie.

Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno; a tutti avevo raccontato quello che avevo visto: e, se tutti mi avevano ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo. Erano uomini di varie opinioni e temperamenti: dagli estremisti più accesi ai più rigidi conservatori. Molti erano uomini di vero ingegno e tutti dicevano di aver meditato sul «problema meridionale» e avevano pronte le loro formule e i loro schemi. Ma così come queste loro formule e schemi, e perfino il linguaggio e le parole usate per esprimerli sarebbero stati incomprensibili all’orecchio dei contadini, così la vita e i bisogni dei contadini erano per essi un mondo chiuso, che neppure si curavano di penetrare.

Quindici anni di fascismo avevano fatto dimenticare a tutti il problema meridionale.

Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l’opera di tutta l’Italia, e il suo radicale rinnovamento

Senza una rivoluzione contadina, non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa.

Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato.

L’Italia è il paese dei diplomi, delle lauree, della cultura ridotta soltanto al procacciamento e alla spasmodica difesa dell’impiego.

Tutti i giovani di qualche valore, e quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese. I più avventurati vanno in America, come i cafoni; gli altri a Napoli o a Roma; e in paese non tornano più. In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l’avidità li rendono malvagi.

Erano due ragazze sui venticinque anni, età, in questi paesi, già rispettabile per una guagnedda vacantía, per una fanciulla da marito. Erano tarchiate, grassotte, esuberanti, nere come sacchi di carbone, con neri capelli corti arricciolati e svolazzanti, neri occhi che lanciavano fiamme, neri baffi sulle grandi bocche carnose e neri peli sulle braccia e sulle gambe in perpetuo movimento.

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L’orologio, Einaudi, 1950

Il Ministero è una specie di tempio, dove si adorano e perfezionano i vizi più abbietti, i tre più desolati peccati mortali: la pigrizia, l’avarizia e l’invidia. Sono i tre vizi propri di quella piccola borghesia incapace, che cerca, insieme, sicurezza e dominio, che è pigra perché non sa far nulla, non sa adoperare le mani, e neppure la mente, e qualunque lavoro le è difficile e perciò sgradevole, faticoso, impossibile; che è avara perché è povera e pretenziosa; che trova nell’invidia il solo compenso alla propria miseria: nell’invidia più totale, penetrata dappertutto, come un veleno che circoli nel sangue. Tutto questo è tenuto insieme da un potente spirito di casta, da un legame stretto come quello della camorra e della mafia.

Sono Contadini tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano. (…) E i Luigini, chi sono? Sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano. Sono la folla dei burocrati, degli statali, dei bancari, degli impiegati di concetto, dei militari, dei magistrati, degli avvocati, dei poliziotti, dei laureati, dei procaccianti, degli studenti, dei parassiti. Ecco i Luigini.

La via americana, sarebbe, dicono, quella della Libertà, la via russa quella della Giustizia: ma la via italiana è un’altra, è quella della Carità.

Lo Stato è l’incarnazione della Carità, il suo dispensatore; e la sparge sui propri membri, sui funzionari, sui parenti, sugli amici, su coloro che direttamente o indirettamente ne vivono.

E’ l’arma segreta della città di Roma: chi arriva qui pieno di vitalità e di volontà di fare, un pò che ci rimanga, con quel vino, gli passa la voglia, si trova un cantuccio al fresco, ben riparato, si accontenta di un impiego, case in letargo e diventa romano.

C’era tuttavia nel giornale qualcosa di un oggetto d’arte, ogni giorno diversi, che aveva in sè un valore, qualcosa della sorpresa che è nelle cose che si fanno con le mani: nelle case, nelle pitture, nei libri. Quando, a notte alta, vedevamo uscire i fogli dalla rotativa, come colombe bianche che prendono il volo, con un gran sbattere d’ali, dalla colombaia, ci pare ancora di assistere, come la prima volta, a un piccolo miracolo quotidiano.

Col gesto abituale di ogni sera, levai l’orologio dalla tasca: lo tenni un poco in mano, e lo avvicinai all’orecchio, prima di posarlo sul tavolino accanto al letto. Sentivo il suo ticchettio regolare, e pensavo che il tempo dell’orologio è del tutto l’opposto di quel tempo vero che stava dentro e attorno a me. E’ un tempo senza esitazioni, un tempo matematico, continuo moto materiale senza riposo e senza angoscia. Non fluisce, ma scatta in una serie di atti successivi, sempre uguali e monotoni.

Chi ci ha cacciati dal nostro paradiso? Quale peccato e quale angelo? Chi ci ha costretti a correre così, senza riposo, come gli affaccendati passanti di un marciapiede di Manhattan?

La sabbia correva nelle clessidre, con un fruscio sottile, come di conchiglie leggere levate dal vento. E a quel fruscio mi addormentai!

In quel tepore tenebroso navigavo verso il mattino. E’ questa l’ora dei sogni: l’ora invisibile dove sappiamo che il mondo si svolge e lavora, e altri vivono, e il sole già splende sulle case e sui camini fumanti, e suonano le fanfare nei cortili delle caserme, e le sirene chiamano gli operai al lavoro e alla noia quotidiana, e tu forse ti guardi per la prima volta allo specchio: è l’ora in cui nelle prigioni cominciano rumori e squille e il monotono cadere delle ore. Gli orologi segnano tuttavia le ore e le campane squillano e le lancette girano lente sulle torri: ma in quest’ora dei sogni noi siamo su una riva sicura, in un letto morbido, fuori del tempo, degli orologi e delle campane, e vediamo cose che non avvengono.

Il cielo di Roma non è così alto come quello delle città del Nord, come quello grigio-azzurro di Parigi, che pare stendersi per infinite migliaia di leghe visibili in prospettiva sulle nostre teste, o come quello stranamente colorato di Londra o quelli esotici e tempestosi d’America; ma è ricco, denso, popoloso, gremito di nubi barocche, pieno di curve mutevoli, appoggiato sulle case, sulle chiese e sui palazzi come una cupola fantastica, che il vento fa girare.

L’arte di interpretare i sogni, qualunque tecnica adoperi, dalla più popolare e rozza alla più raffinata, sia essa avvolta nel mistero di un rito sacro, o ridotta a un grazioso gioco di società, o volgarizzata in una cabala per scoprire i numeri del gioco del lotto, è troppo antica, troppo legata alla memoria del mondo, perché nessuno possa sottrarsi del tutto al suo incanto.

E del resto, è difficile salvarsi dai discorsi dei barbieri e dei camerieri, e di tanti altri, le cui vane parole si spandono, innocue parti del tempo, elementi della natura, nell’aria delle città, come, in quella dei boschi, il ronzio degli insetti.

Ripresa del Mezzogiorno, bonifiche, riforma agraria, questione meridionale, eterne formule, eterni discorsi.

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Le parole sono pietre, Tre giornate in Sicilia, Einaudi, 1955

Questa terra fu sempre (…) un paese di invasioni e di conquista: tutti i conquistatori erano stranieri e lo rimasero. Vennero, presero e ripartirono, lasciando e creando, a reggere il paese, i loro rappresentanti, i nobili, i principi, i duchi, i baroni, un aristocrazia di origine straniera, e, come tutte le aristocrazie, naturalmente in lotta con il lontano governo; e forze militari insufficienti ad altro che a serbare il possesso e a tenere in rispetto i baroni. Mancava, perciò, e ancora manca, una classe intermediaria: ma fra il popolo contadino e lo stato straniero c’è sempre stato un abisso, un crepaccio; e qui sta nascosta la mafia.

Ma quanti altri occhi di uomini e di donne, dappertutto, neri, di un nero insieme vellutato e lucente, senza quell’ombra opaca dei pianti di infinite vigilie che fa nobile e terrestre lo sguardo dei contadini di Lucania, ma invece pieni di un fuoco, di un nero fuoco sfavillante, teneri insieme e feroci, languidi e miti e drammatici, pieni più che di espressione di sentimento, di una vitalità, di una richiesta, di una umida fissità animale, morbidi, impenetrabili, palpitanti come la stella di Venere nel cielo nero.

le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre.

L’estate cala sulla Sicilia come un falco giallo sulla gialla distesa del feudo coperta di stoppe. La luce si moltiplica in una continua esplosione e pare riveli e apra le forme bizzarre dei monti e renda compatti e durissimi il cielo, la terra e il mare, un solo muro ininterrotto di metallo colorato. Sotto il peso infinito di quella luce gli uomini e gli animali si muovono in silenzio, attori forse di un dramma remoto, di cui non giungono alle orecchie le parole: ma i gesti stanno nell’aria luminosa come voci mutevoli e pietrificate, come tronchi di fichi d’India, fronde contorte di ulivo, rocce mostruose, nere grotte senza fondo.

Sopra il frastuono continuo navigano pezzi di frase, modi logici inusitati nel linguaggio comune delle altre parti d’Italia; sento dire”con cui, del quale, dopo i quali”: legamenti logici di un pensiero raziocinante e naturalmente complesso, eredità popolare dell’antica chiarezza greca.

Anche noi siamo scesi dal cielo come il falco dell’estate. Dopo un’ora di volo navigante in un paese liquido di nubi grigie, di squarci improvvisi e teneri di azzurro di cielo, e di grigio lucente di mare, tra fiumi, nebbie, liquide esalazioni, rinserrati in un universo aereo di acqua, ad un tratto, come se una mano con un gesto improvviso avesse scostato i vapori e aperto alla luce gli orizzonti, ecco apparire, tragico, ardente e inverosimile, il blu di Sicilia, e la costa, e lo scheletro bruciato di Monte Pellegrino.

Mi infilo in un vicolo in discesa, sotto via Maqueda, attirato dalla meraviglia rilucente di banchi di frutta e di pesce; mucchi preziosi di gemme sotto i balconi dei poveri; e continuo a scendere in un labirinto di strade, di stradette, di vicoli, in un mercato senza fine, dove ogni frutto della terra e del mare pare animato di una bellezza impossibile, dove il pescespada drizza la sua arma e la sua pinna nera verso il cielo, e i meloni rosseggiano di fiamma, chiusi sotto il tetto di lampade colorate come un segreto di Mille e una notte. E’ la Vucceria. Venga il suo nome da boucherie come vogliono alcuni filologi, o più semplicemente da voce, voceria, come sostengono altri, questo luogo esaltato e brulicante è uno zaffiro d’Oriente che splende di teatrale vitalità

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Varie

Chiunque veda Matera non può non restarne colpito, tanto è espressiva e toccante la sua dolente bellezza.

La Lucania mi pare più di ogni altro, un luogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo.